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Oslo in guerra?

sabato 23 luglio 2011 Il Giornale 0 commenti
Il Giornale, 23 luglio 2011

Molte piste, ma non tutte, portano ad un attacco da parte del terro­rismo di stampo islamico. Nelle prossime ore si dovrà verificare con atten­zione quello che per ora è un fondato so­spetto. Ma se così fosse, non ha nessuna im­portanza se sia stato a causa delle vignette su Maometto riprese anche in Norvegia nel 2006 dal giornale danese che primo le pub­blicò o a causa della presenza di un piccolo contingente in Afghanistan e uno ancora minore in Libia, che peraltro se ne andrà il primo agosto; oppure perché Al Qaida si è offesa per gli arresti domiciliari del mullah Krekar, sospettato di connivenza con Al Qaida... Non importa quali di queste ragio­ni venga addotta d­alla prima rivendicazio­ne di Ansar al Jihad al Alami per le decine di ragazzi morti al convegno sull’isola di Utoya o per l’orrida distruzione e le sette vitti­me nel centro di Oslo.

Ciò che importa è che la guerra dell’islami­smo contro la nostra civiltà, se verrà confer­mata l’ipotesi che nel corso della giornata è diventata sempre più robusta, è feroce e ag­gressiva. Mentre da parte nostra diventa sempre più grande la difficoltà ad accettare che una vasta fetta della popolazione mondiale possa non volerci bene, e non per ragio­ni sociali o economiche, ma per ragioni di ideologia, non per reazione a un nostro even­tuale comportamento riprovevole, ma per ri­fiuto del nostro stesso modo di esistere...

Il terrorismo oggi ha vastissime ramifica­zioni, è divenuto ormai pressoché impossi­bile delimitarlo ad alcune associazioni pa­ramalavitose come era nel passato, ad al­cuni personaggi di fama internazionale, avvolti nel mistero e nel delitto come poteva essere per esempio Carlos. Oggi il terrori­smo è il comma di una teoria islamistica di conquista che va da capi di Stato anche molto importanti, come Ahmadinejad, che ritengono non solo giusto ma dovero­so impiegare Hezbollah e Hamas per la guerra contro l’Occidente e costruire la bomba atomica fino, appunto, a Hamas che domina territorialmente un’area sot­to l’insegna dello sterminio del vicino (e questo non lo ostacola nel gestire larghi rapporti internazionali), fino al nuovo complesso franchising di Al Qaida che, dopo l’eliminazione di Bin Laden, è di­ventato sempre più ambizioso di mo­strarsi al posto del pallido ieratico feroce capo assoluto che ora non dà più fastidio ai suoi epigoni, liberi di esprimere la sete di sangue a modo loro.

Nella penisola Arabica Al Qaida si chiama Aqap, ed già riuscita a lanciare due attacchi agli Stati Uniti: quello del Natale 2009 sul jet diret­to a Detroit e, nell’ottobre del 2010, il va­sto complotto delle bombe sugli aerei car­go. In Somalia, il gruppo Shabaab ha lan­ciato un attentato contro gli americani in Uganda nel luglio 2010, nel Maghreb sem­pre Al Qaida compie frequenti rapimen­ti e altri terroristi agiscono nell’Africa oc­cidentale. Dall’Egitto post rivoluziona­rio promanano, specie nel Sinai, com­plotti terroristi sia della Fratellanza mu­sulmana sia di Al Qaida, e in genere le li­beralizzazioni della Primavera araba, sal­ve restando le sue pulsioni libertarie, con­tengono una quantità di esplosivi perico­li di diffusione del terrorismo.

E noi che facciamo? Oslo, città che so­gna, città che ospita il premio Nobel per la pace, luogo principe del processo di pa­ce, si è fatta prendere alle spalle, nono­stante ultimamente la sua polizia fosse in allarme per ventilati piani terroristici; sa­peva bene che la vicenda del mullah Krekar aveva già suscitato parecchio scontento nella popolazione musulma­na, che è quasi il cinque per cento della Norvegia, sapeva che le sue missioni scontentano alquanto molte centrali ter­roristiche, che la vecchia storia delle vi­gnette ancora duole. Ma Oslo è una città onorevole, che non può, come nessuno di noi occidentali, vi­vere in un clima di sospetto. Noi dobbia­mo credere nella possibilità di pacifica­zione, nel miglioramento di ogni e qualsi­asi relazione, anche quelle con i più espliciti assassini.

Al Zawahiri aveva annun­ciato che Oslo è nel mirino, la sua amba­sciata a Damasco era già stata assediata una volta, Al Qaida aveva promesso un bagno di sangue. Ma la strada che seguiamo per combat­tere il terrorismo al tempo di Obama è di­ventata ideologicamente incerta, deve essere neutra quanto si può, ormai l’ispi­r­azione basilare è quella di una tattica mi­litare tesa a sradicare le cellule sul cam­po, sperando che il terreno non si inaridi­sca troppo rispetto a un futuro rapporto con gli islamisti pronti invece a ricevere una mano tesa: nemmeno un mese fa il capo dell’antiterrorismo John Brennan ha spiegato di nuovo dalla Casa Bianca che la guerra al terrorismo non porta trac­ce di guerra al terrore come sistema belli­co complessivo contro gruppi ideologici, niente freedom agenda, niente asse del male, niente contrapposizione vertica­le... La strategia contro il terrorismo è dise­gnata non per perseguire il terrore come ideologia in ogni angolo del mondo, com­presa casa nostra, dove purtroppo è sem­pre più presente, ma ora come ora punta ad Al Qaida sul campo, ovvero in Afghanistan, con droni che ripuliscono le zone in­­festate senza troppi danni collaterali, col bellissimo attacco di Abbottabad...

Oba­m­a non rinuncia a sperare che si possa se­guitare a giocare di sponda sulla micidia­le presenza del terrorismo degli Hezbol­lah in America del Sud, sulle cellule che ormai fioriscono negli Usa e in Europa, sulla speranza che Hamas e persino As­sad di Siria possano essere recuperati. Probabilmente il mullah Krekar e quelli come lui a Oslo sono ritenuti ospiti diffici­li ma recuperabili, forse anche nell’illu­sione di un residuo in quella neutralità che dovrebbe renderti immune. Ma oggi non c’è neutralità per nessuno.

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