Fiamma Nirenstein Blog

Orgogliosi della nostra storia che si chiama Israele

domenica 1 gennaio 2006 Diario di Shalom 1 commento

Non guardiamo solo al passato: il presente, anche con le sue paure, deve impegnare l’ebraismo italiano

Qualche giorno fa, in una delle mie non frequenti visite a Roma, ho avuto il privilegio di presentare, insieme ad altri cari amici, l’interessante, ben scritto libro di Lia Tagliacozzo “Melograna”, una raccolta di ritratti di vita ebraica italiana. E’ stata un’occasione per rivedere tanti amici parte di quell’ebraismo romano immersa nel quale ho passato tanti anni, quelli bellissimi dell’infanzia di mio figlio, come un’ebrea approdata finalmente a una grande comunità di popolo, piena di entusiasmo umano e professionale, avendo l’onore di partecipare anche al lavoro della Comunità in qualità di eletta.



Ho sempre amato questa Comunità, perché prima di approdare in Israele mi ha dato l’occasione di partecipare dell’epos del popolo ebraico italiano, delle sue tradizioni, dei limudim di talmud Torah, delle sue tradizioni ma soprattutto della sua forza nello scegliere sempre la strada della vita, della resistenza alle immense tempeste storiche che si sono abbattute, l’ultima nel 1943, sulle rive del Tevere; il Ghetto stesso, dove vivevo, è stata per me un’esperienza meravigliosa. La comunità di Roma, mi ha fatto sentire come parte della vita vera la frase di Hillel che prima si interroga “Se non sono io per me stesso, chi lo sarà?”; ma subito aggiunge: “Ma se sono solo per me stesso, che cosa sono io?”.

Di nuovo ho apprezzato, sia intervistati nel libro di Lia che fra il pubblico, le care persone che cercano di “non rompere la catena” come dice nel libro Amedeo Spagnoletto e quelle, come mio cugino Lele Fiano, che vivono la memoria della shoah come una testimonianza di vita quotidiana, un dovere di testimonianza che si estende a tutti gli aspetti della loro vita civile e familiare. Per me, che da tanti anni vivo in Israele dove ho visto molto da vicino, nel mio ruolo di giornalista, la tragedia del generoso tentativo di pace di Rabin, Peres e Barak compensato dall’invenzione del terrorismo suicida della seconda Intifada; per me, che ho con immenso orgoglio osservato l’eroismo del popolo ebraico nel difendersi dall’odio dell’integralismo islamico e dell’attacco all’esistenza stessa dello Stato ebraico da parte di Hamas, degli Hezbollah, della Jihad Islamica e delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa; per me che ho fatto della mia vita e dei miei libri un osservatorio sulla marea di antisemitismo che di nuovo sommerge il mondo, dalle parole del leader iraniano Ahmadinajab che promette di distruggere Israele (e certo non è il solo) fino alla grande icona della sinistra il musicista greco antifascista Mikis Theodorakis, che dice che “Gli ebrei sono il male del mondo”; fino al premio Nobel Jose Saramago che accomuna i lager nazisti alle città palestinesi e gli ebrei ai loro carnefici.

Per me è stata una grande sorpresa, e degna di riflessione, il fatto che Israele e l’odierno antisemitismo occupino un posto piccolo piccolo nel pensiero, nella riflessione, nel senso di sé degli ebrei italiani, che pure sanno raccontare nel libro di Lia, storie molto belle e interessanti. Direi meglio, sono rimasta stupita del senso di sé degli ebrei romani (credo, per quello che mi testimonia la mia esperienza, che i milanesi siano molto più calorosi, più tifosi, più esposti), dato che Lia si è soprattutto occupata di loro.

L’autrice quando mi sono detta stupita di questo vuoto, ha detto che a sua volta ha registrato con stupore una certa frettolosità sui due argomenti, da lei per altro proposti. La sua registrazione è senz’altro fedele. Ma significativa è stata la reazione di una vivace giovane madre che dal pubblico mi ha letteralmente apostrofato, chiedendomi se volevo, forse, istigarla a insegnare l’ansia dell’antisemitismo e del terrorismo ai suoi bambini. Certo che non lo voglio. Ma certamente invece desidererei e credo con me molti ebrei nel mondo, che avessimo chiaro, noi adulti, il valore del nostro popolo, che credo possa essere insegnato a un bambino con orgoglio speciale e anche con ricchezza sconfinata, avendo di fronte agli occhi la nostra lunghissima storia, poiché siamo l’unico popolo che sia rimasto sé stesso fra tante persecuzioni per quattromila anni, l’unico che ha dato al mondo quel monoteismo etico cui si ispira tutta la costruzione della sacralità dell’uomo, della libertà, della democrazia, dei diritti umani. Valori, che sia ben chiaro, non sono né di destra né di sinistra, ma che hanno semplicemente gettato le fondamenta della civiltà occidentale.
Chi poi si vuole ispirare alla nostra cultura, ben venga. Noi ontologicamente siamo ebrei, e basta. Vorrei certo che fosse chiaro ad ogni bambino come la costruzione dello Stato d’Israele sia una favola bella di rinascita dalle ceneri di una tragedia senza pari. Vorrei che nonostante le tante sciocchezze che sono state diffuse il sionismo sia, specie dopo la shoah, un monumento alla volontà, alla forza, alla resistenza del nostro popolo; che la memoria non fosse la nostra unica patria, ma che la nostra vera patria fosse il presente, in cui ci sono le nostre tradizioni, ma campeggia Israele, lo Stato degli ebrei, sia per chi ci vive, che per chi preferisce restare, ed è suo diritto, nella più antica Diaspora del mondo. Vorrei che la negazione che attanaglia l’Europa come un nuovo spirito di Monaco, che impedisce di vedere l’aggressività e la pervasività del terrorismo, che fa chiamare i terroristi “resistenti” o “militanti” affinchè la paura non si impossessi di noi, fosse lontana mille miglia dagli ebrei, che ne sono le prime vittime: l’antisemitismo fu la mosca cocchiera del nazismo che voleva conquistare il mondo, e lo è oggi di Bin Laden e dei terroristi che vogliono restaurare il califfato mondiale, con la stessa identica intenzione.

Non facciamo dei bambini un alibi per le nostre paure per favore, insegnamo loro quanto è bello l’ebraismo e quanto quindi sia indispensabile amare lo Stato degli ebrei anche perché ci vivono persone come la poliziotta Attias, una giovane donna incinta, che a Natanya individua il terrorista, non fugge ma gli corre dietro, cerca di afferrargli la mano perché non si faccia esplodere, e considera, come tanti camerieri, guidatori d’autobus, studenti che fanno la guardia ai centri acquisti, assolutamente naturale essere lo scudo del suo popolo.

E’ una cosa sbagliata da insegnare? Io non credo; credo che all’età giusta, per un ragazzo, e certo oltre l’età infantile che vuole solo rosei orizzonti, essere fieri del proprio popolo sia il più grande dono che egli possa ricevere. Non tutti hanno un meraviglioso dono di identità come gli ebrei, non tutti una così grande storia di coraggio e di vitalità. Pensare che questa identità non si chiami “Israele” o almeno anche “Israele”; o immaginare che si possa fare a meno di notare e di combattere l’antisemitismo specie quello dei terroristi o che sostiene il terrorismo, possa essere fantasticato come un piccolo neo, è un’illusione che si rischia di pagare cara, sia moralmente che nella pratica quotidiana.

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amir , bologna
 venerdì 12 ottobre 2007  23:36:52

mi domando cosa ci guadagni ad essere così maligna!!!! Solo soldi?



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