« Ora deve parlare in arabo al suo popolo» La doppiezza di Arafat
venerdì 24 novembre 2000 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
C’ È ancora qualcosa da fare in Mediorente perché i due contendenti
possano, come ormai si dice in malinconico slang, sedersi di nuovo al
tavolo
delle trattative, ed è in teoria la cosa più facile del mondo, in
pratica la
più difficile: per permettere alla pace di rimettersi in marcia ed
evitare
così non solo il quotidiano spargimento di sangue, ma anche una
probabile
grande escalation di area, bisogna che Arafat compia un gesto
drammatico di
riconciliazione parlando in arabo, così da essere compreso da tutto
il suo
popolo. Questo non significa affatto obliterare o diminuire le sue
pretese:
Arafat sa benissimo che per esempio i famosi insediamenti della
striscia di
Gaza su cui oggi si riaccende la più crudele delle battaglie (è
contro uno
di essi, Psagot, che si è compiuto l’ attentato al bus scolastico)
erano il
primo pegno che Barak gli aveva portato a Camp David, se solo lui li
avesse
accettati. Arafat sa che può ottenere quasi tutto quello che chiede
per
fondare il suo stato, ma Israele non è paese da indietreggiare sotto
le
minacce, ma solo con la trattativa.
Arafat con cadenze regolari dice di volere la pace: ma ogni accorata
dichiarazione di disponibilità per un cessate il fuoco, come a Sharm
el
Sheik, o nelle parole dette a Shimon Peres o alla Albright e agli
emissari
europei, come avviene anche in queste ore, si sono dimostrate nulle e
vuote.
Gli attentati si sono moltiplicati, e Arafat non li ha condannati. Ne
ha
semmai preso le distanze dichiarandosi non responsabile, oppure come
ieri al
Cairo dicendo di non approvarli, dando così implicitamente la colpa a
varie
parti secondo i suoi incontrollabili del corpo palestinese, Jihad,
Hamas, o
Tanzim che siano.
Ma non è così : gli attacchi che da Gaza alle città Israeliane (gli
spari
dentro Gerusalemme, l’ attentato di Hedera) si sono susseguite senza
tregua,
senza che mai una sola volta gli israeliani abbiano attaccato per
primi. Ad
ogni attentato, si poteva verificare che tutti i vari gruppi
partecipavano
agli attacchi, compresi gli uomini di Fatah, e molte volte a sparare
o a far
saltare gli esplosivi sono stati i poliziotti-soldati dell’ esercito
di
Arafat. La strategia è concentrica e ben mirata: da una parte
l’ attacco agli
insediamenti, così da suggerire alla sinistra israeliana una forte
opposizione interna. Poi, l’ escalation a Gerusalemme, la capitale
contestata. Infine, il cuore della vita civile israeliana, come è
accaduto a
Hedera. Arafat spera che la violenza, logicamente più forte dalla
liberazione dei leader estremisti, susciti una reazione israeliana
che per
la sua forza o per qualche errore possa eccitare il Medio Oriente,
gli
consenta di invocare la presenza di una forza internazionale, metta
Israele
sul banco degli imputati di fronte al mondo, consenta guadagni
territoriali
ancora più grandi di quelli che Barak gli aveva già offerto a Camp
David.
È una strategia che necessita della simpatia del campo mondiale della
pace,
e per questo Arafat ogni tanto proclama un inane ed ammiccante
cessate il
fuoco. La fine del doppio registro si avrà solo quando il rais
compirà un
gesto inequivoco come quello che fece Hussein andando ad abbracciare
i
genitori delle bambine israeliane uccise dai suoi soldati, o quando
mostrerà
l’ emozione di Sadat dicendo ai suoi e a Israele: « No more war» .