« OGGI NON PROVO SENTIMENTI D’ ODIO, PER PRIMA COSA NOI DICIAMO PACE» « L’ olocausto dimenticato degli ebrei iracheni» Nel ‘ 73 fuggì in Isr aele aiutato dai curdi per sottrarsi alle persecuzioni
venerdì 28 marzo 2003 La Stampa 0 commenti
SALMAN Khalastchi, profugo ebreo iracheno, oggi commercialista
cinquantenne
di Tel Aviv, guarda con stupore e ritegno la grande guerra contro il
suo
nemico, il regime baathista che lo ha costretto alla fuga, che lo ha
perseguitato, affamato, che ha ucciso i suoi cari e i suoi amici meno
fortunati di lui. Il suo aspetto è tipicamente iracheno, la folta
chioma
grigia ondulata, il volto rotondo e gli occhi neri propri della sua
terra.
Mi mostra in un film le immagini di Baghdad, le maestose svolte del
Tigri,
le foto della città ai tempi di Abd Al Karim Kassem che non era
nemico degli
ebrei, i monumenti moderni costruiti nei tempi di Saddam al posto
delle
vecchie case in cui la comunità ebraica abitava. « L’ Iraq è
meraviglioso, la
Bibbia vi colloca il giardino dell’ Eden - dice - e per noi ebrei lo è
ancora
di più : fino a cinquant’ anni fa eravamo 130mila, i discendenti della
diaspora più antica, quella legata alla distruzione del primo Tempio
nel 586
avanti Cristo. Gli ebrei furono portati in prigionia a Babilonia, ben
prima
che diventasse islamica. Si può dire che erano gli iracheni più
antichi,
finchè non sono stati espulsi o sono fuggiti. I babilonesi sapevano
fare la
guerra, ma a noi fu chiesto, tremila anni fa, di insegnar loro a
cantare, a
forgiare i recipienti di rame, a diventare falegnami, e scrivani. A
Babilonia gli ebrei hanno scritto il Talmud. Vi rimase nei secoli un
gruppo,
di cui faceva parte la mia famiglia, una delle più antiche dell’ Iraq.
Risiedevamo a Diwanja, nel nord, una città a maggioranza sciita: là
sono
nato, e là sono rimasto finchè il regime baathista, salito al potere
nel
1963, non costrinse gli ebrei (circa 6000 dopo l’ esodo di massa del
1951) a
spostarsi a Baghad» .
Salman ricorda con orrore la deportazione che costrinse gli ultimi
ebrei a
trascinarsi verso la capitale: oltre che sequestrare i loro beni e a
metterli in una condizione di ulteriore debolezza, questa prepotenza
doveva
intimidire tutta la popolazione. « Passammo anni di terrore e di
miseria.
Ogni giorno ci colpiva una nuova angheria, gli ebrei venivano espulsi
dai
posti di lavoro, i bambini venivano buttati fuori dalle scuole
normali, la
propaganda dopo la guerra dei Sei Giorni era terribile. Ci furono
molti
rapimenti e uccisioni. Nel ‘ 69 i baathisti, Saddam era già un leader,
accusarono un gruppo di ventenni di essere spie di Israele: dopo un
falso
processo li impiccarono fra gli applausi nella Piazza
dell’ Indipendenza. Mio
padre morì quell’ anno nella miseria e nel dolore. Mia madre restò con
sei
figli. Pensavamo con rimpianto alla grande emigrazione verso Israele:
120mila ebrei nel 1951, con l’ operazione Ezra Nehemia, erano fuggiti
dopo la
Guerra d’ Indipendenza da cui nacque lo Stato Ebraico. L’ Iraq era
stato uno
dei Paesi arabi che avevano mandato il loro esercito contro gli
israeliani
dopo la dichiarazione dell’ Onu che nel ‘ 47 proclamava la partizione.
Con la
sconfitta subita, l’ odio antiebraico, un elemento portante nel
filonazismo
dei baathisti, diventò eccitazione persecutoria. Per Saddam è stata
sempre
una fissazione. L’ antisemitismo degli iracheni ricorda un po’ quello
dei
polacchi durante la seconda guerra mondiale: un’ aggressione verso un
millenario frammento della propria storia» .
Per Salman nel 1973, quando ormai il regime del Baath è consolidato e
Saddam
è di fatto il vero leader, è tempo di fuggire: « I miei salvatori,
benedetti
siano, furono i Curdi. Presi accordi con loro, non vollero denaro in
cambio,
le due comunità curda e ebraica erano unite dalla persecuzione. Per
due
volte organizzammo la fuga, ma solo al terzo tentativo riuscimmo. Al
nord,
dove eravamo diretti c’ era la guerra con i Curdi, prima di giungere
nel loro
territorio, bisognava superare molti posti di blocco. Ma non c’ era
piu’
tempo. Con documenti falsi partimmo su una macchina in affitto, una
vecchia
Mercedes, alle tre di notte, guidati da un amico curdo. Non prendemmo
con
noi niente, neppure una valigia; mia madre non piangeva, non aveva
niente da
rimpiangere in quella casa. Avevamo già perduto tutto. Giungemmo il
giorno
dopo a Sulemanja, in zona curda. Da là una jeep ci portò in una notte
senza
luna in un nascondiglio presso la diga di Darbenb. I guerriglieri ci
aiutarono a passare il confine; entrammo in Iran, respirai
profondamente,
era la prima volta che mi sentivo libero» .
Salman e la sua famiglia, ormai aiutati direttamente dall’ Agenzia
Ebraica,
furono prima trasportati nel villaggio di Hane con una vecchissima
auto. Si
rifocillarono, aiutati dalle autorità locali cui si presentarono
senza
bagagli e senza danaro dicendo: « Siamo ebrei» : « Bevemmo il the
persiano,
amaro: era la cosa più dolce che abbia mai bevuto» . « Sull’ aereo
israeliano
che ci portò a casa pregavamo e cantavamo in coro con gli israeliani
che ci
erano venuti a salvare» . Salman annover fra i suoi salvatori non solo
gli
uomini dell’ Agenzia, ma anche alcune figure fondamentali del periodo
della
persecuzione: « C’ era il piccolo custode del tempio, Abu Eliahu, che
costrinse noi ragazzi a imparare a memoria i salmi: sapeva di farci
un
regalo impagabile, di lavorare per la nostra salvezza: ” Il Signore ti
aiuterà nel giorno della disperazione” ci faceva recitare. L’ ho
ripetuto
tante volte quando credevo che la fine fosse arrivata. Lui è morto
là ’ .
Ricordo anche il professor Abdullah Ovadia, il preside della scuola
semiclandestina: per ogni fuggitivo, preparava una lettera di
presentazione
personale in cui descriveva il carattere e la preparazione dei suoi
allievi.
La mia futura moglie Rachel, che era allora una bambina e mi
raggiunse dopo
due anni,sapeva battere a macchina in inglese e faceva questo lavoro
a casa.
Ovadia non si stancava di ripetere che chi fuggiva doveva continuare
a
studiare ovunque andasse, a qualunque costo. Un giorno Rachel preparò
due
diplomi urgenti, per due ragazzi della famiglia Karkush. Dovevano
fuggire,
era molto urgente, sarebbero venuti a ritirarli la mattina. Ma Rachel
non
vide arrivare nessuno: tutta la famiglia era stata sterminata, i
vicini
videro il sangue e i sacchi di juta in cui erano stati trascinati via
i
corpi dei genitori e dei ragazzi» . Oggi che le truppe americane
marciano su
Saddam , non c’ è in Salman nessuna eccitazione, tantomeno gioia: « Gli
ebrei
per prima cosa dicono “ Shalom” , pace. Non ho sentimenti d’ odio, per
strano
che possa sembrare, verso nessuno. Noi ebrei iracheni cerchiamo di
essere
degni di tremila anni di tradizione meravigliosa» .