NEVROSI D'EUROPA
martedì 22 ottobre 1996 La Stampa 0 commenti
ISRAELE e l'Europa, figlio ribelle e madre crudele, riescono sempre a
imprimersi reciproche ferite dopo il felice periodo della prima
infanzia. Quando lo Stato ebraico nacque, subito dopo il disastro
dell'ebraismo europeo nella shoah, un breve periodo aurorale segnò
la speranza per l'Europa di lavare i propri sensi di colpa nel
sostegno allo Stato di Israele; per gli ebrei, di aver creato una
linea di continuità pur nella rinascita nazionale. In questi giorni
le parole di Lamberto Dini, ma soprattutto la visita di Chirac
(mentre la visita di D'Alema segna un'interessante diversione
rispetto alla linea intrusivo-aggressiva), lungi dal marcare
l'ingresso dell'Europa come onesto mallevadore della politica
mediorientale, come a gran voce più volte i leader europei hanno
reclamato, marcano vecchie nevrosi, peggiorano, invece di migliorare,
la situazione del processo di pace. Prima di tutto, la nevrosi
israeliana: esiste in Israele una sindrome da accerchiamento che ha
sempre caratterizzato soprattutto le posizioni della destra. Il
rappresentante più famoso dell'idea che Israele fosse circondato
solo da nemici fu Menahem Begin che si può dire abbia addirittura
dovuto soccombere fisicamente a questa ossessione dopo la guerra del
Libano. L'Europa per questo tipo di pensiero è soprattutto
l'inguaribile nutrice dell'antisemitismo, e ogni sua parola di
condanna è vista come una prova che Israele non può e non deve
fidarsi altro che di se stesso proprio come l'ebreo diasporico. Ora,
è chiaro che Chirac, reduce da eccessive ovazioni da parte di un
popolo oppresso come quello siriano, e da una conferenza stampa
congiunta con Assad in cui ha dichiarato di sostenere senza
esitazione la posizione siriana della cessione completa del Golan
(benché certo consapevole del fatto che al tempo di Rabin il
dittatore alawita non accettò questa condizione come pegno di una
pace completa), non può immaginare che la sua profferta di
mediazione aiuti davvero la pace. Specie mentre si rifiuta di parlare
alla Knesset e si vanta invece di essere il primo Presidente che
rivolge un indirizzo al Parlamento palestinese. È chiaro, invece,
che non solo questo provoca il rigetto delle profferte di mediazione
dell'Europa, ma induce un elemento di ulteriore conflittualità . La
Francia fu il vero punto di riferimento per Israele finché de Gaulle
nel 1967 non tramortì l'opinione pubblica con un embargo delle armi
in piena Guerra dei Sei Giorni dopo essersi reso conto che gli era
ormai impossibile usare Israele come testa di ponte per controllare
il Canale di Suez. Da allora l'Europa ha sviluppato la sua nevrosi,
una somma di sensi di colpa e di interessi in un continente in gran
parte cattolico, in gran parte ex colonialista, in gran parte
comunista, conflittualmente proteso verso il Terzo Mondo e in
competizione con gli Stati Uniti. L'Europa è dunque incapace di
rivolgersi a Israele senza paternalismo, senza ammiccare agli arabi
in maniera tremendamente visibile, senza far pensare che un suo
ingresso sulla scena debba per forza voler dire che l'intenzione è
far pendere la bilancia dalla loro parte. Chi infatti onestamente
può credere nella neutralità europea? La Francia ha costruito il
primo reattore nucleare di Saddam, la Francia ha seguitato a
fornirgli armi fino alla Guerra del Golfo e ha sanzionato l'America
durante l'attacco per l'invasione irachena nella zona curda. La
Francia e la Germania sono i principali nemici dell'embargo
internazionale all'Iran, che è il primo motore del terrorismo
internazionale e certo il primo nemico di Israele. La Francia,
ancora, sostiene le posizioni siriane sul Libano. E la stampa europea
tutta, da quando Netanyahu è stato eletto, è tornata agli standard
anti-israeliani che senza remissione collocano Israele sempre dalla
parte dei cattivi, senza consentirgli nessuna chance, vagheggiando il
periodo del processo di pace come appartenesse ad un altro Stato, ad
un altro tempo. È questo il mallevadore che il Medio Oriente cerca?
Difficile crederlo. Forse nella posizione più equilibrata di Massimo
D'Alema, in questa sua lunga e particolareggiata visita fra Netanyahu
e Arafat, c'è un'indicazione degna di essere raccolta. Può darsi
che la sinistra infatti, scottata prima del processo di pace da tanti
pregiudizi e tanti errori dettati dalla sua dislocazione in campo
internazionale, sia ora la parte più disponibile in Europa a fare
ammenda e quindi, in tempi certamente problematici per la pace, a
dare tuttavia credito oltreché ad Arafat anche a quello che dopo
tutto è l'unico Stato democratico dell'area. O la democrazia per
l'Europa forse non è più un valore? Fiamma Nirenstein