NETZER HAZANI NELL’ INSEDIAMENTO QUANDO IRROMPONO I SOLDATI Si spingo no, s’ insultano, s’ abbracciano
venerdì 19 agosto 2005 La Stampa 0 commenti
inviata a GAZA
È stato il giorno dei fuochi e dell'esasperazione, ma anche quello della
forza della democrazia, che costringe a interiorizzare ed evita lo
spargimento di sangue. I primi fuochi si accendono la mattina lungo la
barricata dietro la quale ci troviamo nell'insediamento di Netzer Hazani,
uno dei più belli della Striscia di Gaza. Un sole spietato illumina le dune;
siamo gli ultimi a entrare prima che vengano ammassati al cancello
pneumatici, filo spinato, stracci imbevuti di materiale infiammabile, tende
da camping ormai inutili ai giovani infiltrati che oggi saranno sgomberati.
L'esercito arriva e uno dei giovani che l’ avvista, si mette la mano davanti
alla bocca. « Siamo finiti» , esclama vedendo la schiacciante potenza numerica
delle squadre che marciano senza armi, ma col giubbotto antiproiettile blu e
in mano il casco di ceramica. Il villaggio, situato fra Dir El Ballah e Khan
Yunis, conta 80 famiglie: metà se ne sono già andate. Gli infiltrati sono
qualche centinaio, meno di quelli che hanno occupato il tempio di Neve
Dekalim e quello di Kfar Darom, teatro, con Shirat ha Yam, dei peggiori
incidenti di ieri: da Kfar Darom, in lontananza, si vede salire il fumo nero
mentre aspettiamo che l'esercito irrompa. Con noi sul prato i bambini che
incredibilmente fino all'ultimo seguitano a giocare fra le palme e le
bouganville.
Un enorme bulldozer con un unico piccolissimo soldato arrampicato nella
cabina sfascia tutto: il cancello, la barricata e il gioco dei bambini che
adesso scappano, uno con una pelle di serpente in mano. Seguita a mostrarla
orgoglioso agli amici mentre la fine del suo mondo si avvicina. Gli uomini
si attardano brevemente in una preghiera diretta e cruda, carica di
delusione e stupore; urlano al cielo « Adonai, Adonai» , Dio, Dio, come per
rimproverarlo di non aver compiuto quel miracolo in cui credevano senza
riserve. I soldati entrano dietro il bulldozer, gli infiltrati gridano
« Vigliacchi, stracci di Sharon, scagnozzi senza patria» ; poi ognuno va
veloce verso la sua casa e i militari entrano spargendosi per ogni sentiero:
hanno il volto stanco e preoccupato, cercano di mostrare simpatia verso chi
li insulta, ma alcuni, in un momento di intervallo, confidano: « È troppo, ci
danno dei traditori mentre siamo qui per loro, siamo sempre stati qui per
loro» .
Ed ecco il grande incendio: le fiamme si levano da due belle case a due
piani e fra quei fuochi stanno pericolosamente ritte sul tetto sette
persone. La casa brucia come un pagliaio, sul sentiero ai nostri piedi un
uomo giace con la faccia per terra e urla il suo dolore mentre un vecchio
singhiozzante cerca di alzarlo. I soldati piangono. « È stata la madre della
famiglia Matzilia a decidere di dare fuoco alla sua casa» , spiegano. Ha
detto: « L’ ho disegnata io per mio marito e i miei sei figli, non la lascerò
né a Hamas né a Sharon» . Dietro l'angolo la squadra con cui marciamo di casa
in casa si ferma all'ombra di un portico per bere un sorso d'acqua; escono
dei ragazzini che ripetono ai soldati: « Guardami negli occhi, non ti
vergogni?» E in verità i due popoli, quello dei ragazzi in divisa e quello
dei religiosi con gli abiti cuciti in casa, quello che ama il pub e quello
privo di ogni civetteria consumistica, che qui hanno il compito di
rappresentare lo stato laico e il Padreterno, si guardano davvero negli
occhi, come richiede lo slogan dei settler.
I soldati cercano invano di far uscire una famiglia disperata. Il giovane
capofamiglia, scuro di occhi e di pelle, urla: « Verremo gettati in una
baracca, senza lavoro. E questo dopo che sono stato un soldato Givati e ho
perso una mano. Questa è la casa che ho costruito per me e il mio bambino.
Entra, guardala, è di seta» . I soldati rinunciano, torneranno quando si sarà
calmato. Accanto, in una villetta con due acacie nel giardino, vivono i
genitori del soldato Jonathan Hillberg, ucciso nell'estate del 97. La madre,
Broide, è una bella donna dai capelli grigi e ricci; i suoi occhi azzurri
sono identici a quelli del figlio, il cui ritratto campeggia nella stanza;
col marito Shmuel e un gruppo di amici è seduta per terra, come in lutto e
canta sulla chitarra le canzoni di Jonathan. I sei soldati entrano, Broide
tenta a lungo, con voce piana, di spiegare che se ubbidiranno al perverso
ordine che è stato loro impartito, si condanneranno al pentimento infinito,
sogneranno quel giorno tutta la vita, non avranno più un volto pulito da
mostrare a figli e nipoti. « Come potete venire qui a cacciarci di casa
mostrando sulla divisa la stessa bandiera israeliana che abbiamo messo sulla
tomba di Jonathan, che lasciamo qui?» .
Il giovanissimo ufficiale cerca di spiegare: « Vorrei solo dire, signora, che
io non amo Israele meno di lei e che sono qui per cercare di evitare che si
crei fra di noi un invincibile ghiaccio, quindi le dico la pura verità : noi
l'amiamo molto di più di quello che lei creda, intendo noi soldati» . Una
soldatessa grassoccia piange disperatamente. E poi tutti singhiozzano quando
con andatura lenta la coppia Hillberg esce; un soldato porta fuori una cassa
di mango e due valige. I due si dirigono, come gran parte del villaggio,
verso la sinagoga.
Anita Drucker, la leader del kibbutz, una sessantenne che pare un capo
indiano, camicetta a quadri, industriale dei cherry tomato, ancora ieri
mattina prevedeva un’ uscita contegnosa: « Ce ne andremo tutti insieme dopo
aver salutato il nostro tempio con i sefer Torah (i rotoli della Bibbia) e,
poichè non abbiamo dove dormire e ogni trattativa col governo per ottenere
una soluzione collettiva è fallita, andremo al muro del pianto, a
Gerusalemme. Quella sarà la nostra casa» . Di fatto gli autobus sono usciti
con materassi e cibo da campo. Ma Anita non ha retto: quando ha chiesto ai
soldati di dire insieme a lei che stavano mettendo in atto « una scelta
immorale» , ha trovato in quei ragazzini con la divisa una decisa
opposizione. « Noi la rispettiamo profondamente, soffriamo insieme a lei, ma
non pensiamo che quello che facciamo sia immorale» .
Anita, seduta nella bella casa che fra un minuto volerà via come nella
storia del mago di Oz, insiste, poi si spezza e d'un tratto capisce che
neppure quel piccolo miracolo le sarà consentito. Allora anche lei, messa di
fronte alla sua impotenza, alla perdita della casa, alla sua vita di persona
anziana sradicata, piange per tutta la strada fino al tempio. Qui si portano
fuori i rotoli della Torah, evocando immagini che è straziante ricordare. Si
elencano cantando tutte le vittime locali del terrorismo e sono davvero
troppe da sopportare mentre si abbandona il villaggio per cui sono morte.
Qui a poco a poco arrivano tutti: i soldati che hanno sgomberato le case, la
gente mezza bruciata dai propri stessi incendi, le ragazzine compagne di
scuola dall'asilo che stanno per lasciarsi e seguitano a singhiozzare. I
soldati sono morti di fatica, a volte ci sono volute cinque ore per
convincere le persone a uscire.
A volte all'occhio disincantato di una democrazia invecchiata, la parola
diventa caricaturale slogan politico. Negli insediamenti del Gush il
continuo parlare e piangere, il guardarsi negli occhi, il ricominciare ogni
volta da capo a spiegarsi senza pretendere di trovare un accordo, sono
serviti probabilmente a salvare delle vite e a evitare spargimento di
sangue.