NEPPURE ARAFAT SEMBRA DISPOSTO A TROPPE CONCESSIONI CON L’ INVIATO US A Il dilemma del premier: come dire sì e no Non vuole contraddire l’ osp ite ma ripete: ritiro solo dopo la resa
venerdì 12 aprile 2002 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
LA proposta di Colin Powell si chiama « intervento internazionale» :
giunto
ieri notte, tra oggi e domani sballottato fra i tentativi di Sharon e
quelli
di Arafat di convincerlo delle loro buone ragioni, a tutte e due
racconta
che i suoi incontri con il mondo arabo, e specialmente con re
Abdallah di
Giordania, gli descrivono come presente e chiara una minaccia che
investe
tutto il Medio Oriente; il conflitto è un cerino a un centimetro da
un
pagliaio, e gli Usa hanno intenzioni serie. Quindi, secondo voci di
corridoio, Powell proporrà osservatori americani, una squadra di 20
uomini
della Cia e del Pentagono che dovranno monitorare da una parte il
ritiro
degli israeliani, come chiede Arafat, e dall'altra, come chiede
Gerusalemme,
dovrà sorvegliare le attività di terrorismo, e anche verificare che
le
persone assicurate alle carceri palestinesi non escano dalla porta
posteriore.
Questo è l'accordo preventivo che è nell'aria, complementare a un
cessate-il-fuoco che sia a sua volta la premessa di un ritorno alle
trattative secondo il piano Mitchell. Ma sarà possibile? E'
realistico? I
precedenti non sono affatto promettenti. Gli animi palestinesi sono
esacerbati, il conto dei morti di Jenin si configura particolarmente
doloroso. Dall'altra parte, a Hebron ieri un terrorista è saltato per
aria
nella sua automobile, a Tulkarem una ragazza che preparava un
attentato per
la settimana prossima è stata catturata insieme con la sua cintura
già
pronta in casa.
Arafat non sembra pronto ad abbandonare la strategia del terrore, i
pesci
grossi come Barghuti sono al largo, difficile immaginare che Arafat
diventi
remissivo proprio ora che il suo campo lo esalta come un eroe e lui
invoca
spesso il martirio: non a caso Zinni e Cheney hanno ricevuto tanti
« no» .
Anche con Sharon le cose non saranno facili: il primo ministro
israeliano è
molto diviso fra la necessità di non dispiacere agli Usa e di
concludere
secondo il suo schema l'operazione militare in corso; gli americani
sono gli
unici amici rimasti dopo che l'Europa ha minacciato addirittura
sanzioni;
d'altra parte, è duramente determinato a portare a fondo l'operazione
che
dovrebbe, secondo i suoi progetti, liberare Israele dal terrorismo.
Ha
lasciato 24 villaggi palestinesi in onore di Colin Powell e si
prepara a
lasciarne ancora, ma intanto ne ha occupati alcuni altri e ha
rastrellato
l'università di Bir Zeit, in cui regnano le formazioni estremiste
islamiche.
Questo non vale però l'approvazione degli Stati Uniti: Sharon per
farli
contenti deve lasciare libere Ramallah, Nablus e Jenin, e sono
proprio
queste le città da cui Sharon è restio a fare uscire i carri armati.
Dunque: scegliere gli Usa o restare a piantonare le città da cui
possono
uscire nuovi attacchi? Lo inseguono da tutti i lati del paese le
immagini
strazianti dei moltissimi funerali di giovani che si succedono a
distanza di
mezz'ora l'uno dall'altro, voci di madri, di bambini piccoli, di
mogli
incinte che sussurrano o gridano il loro ultimo saluto. Ma è Betlemme
che va
risolta, con il problema della Natività assediata dall'esercito e
piena di
Tanzim armati da cui promana l'incubo di un immenso scandalo
internazionale.
Eppure Sharon non abbandona l'idea di catturare i Tanzim e gli uomini
di
Hamas da giorni chiusi nella Chiesa con i frati cattolici e greci
ortodossi.
Non abbandona l'idea di definire Arafat un puro e semplice terrorista
e di
trattarlo di conseguenza: ma gli americani vogliono invece proprio
porre
fine al confino di Arafat a Ramallah; i paesi arabi, e specie re
Abdallah,
hanno chiesto a Powell di tirarlo fuori di là prima che diventi
l'eroe
assoluto di tutti i loro estremisti, una bandiera contro i vari re o
raí ss
della zona.
Sharon deve ancora prendere una decisione chiara, vuole vedere che
impressioni faranno a Powell le prove dell'implicazione diretta di
Arafat in
una serie di imprese terroristiche che certamente gli mostrerà oggi;
anche
Arafat temporeggia, vuole vedere che impressione faranno a Powell i
morti di
Jenin. Peres ieri, come se già sapesse che decisioni verranno prese,
ha
parlato di tre settimane prima della conclusione dell'operazione Muro
di
Difesa, ma chissà se è vero.
Arafat, che ieri Saeb Erakat ha pregato di accettare il
cessate-il-fuoco, sa
bene che Powell sarà molto duro con lui sul terrorismo. Gli ha fatto
il
regalo di dichiararlo di nuovo l'interlocutore e il rappresentante
legittimo; lo va a trovare a Ramallah, anche se questo a Sharon
sembra
irragionevole: adesso si aspetta in cambio che Arafat però gli vada
incontro, dicendo finalmente una parola chiara contro il terrorismo.
Sembra
a molti una missione impossibile.
Powell comunque ha una carta di riserva nella manica: si chiama
Madrid Due.
La proposta del principe saudita Abdallah, si dice sia in ambienti
israeliani sia palestinesi, potrebbe diventare con questa visita la
pista
per una faticosa ripresa. E' facile che dalla missione di questi
giorni si
esca con la promessa di una convocazione, forse proprio a Madrid, di
una
Conferenza di pace cui partecipino tutti gli Stati della zona.
Ovvero: si
ricomincia da zero, anzi dalla disperazione.
E' una visita molto drammatica, un'ultima spiaggia; ma è una visita
solenne.
Powell si vede riconosciuto in questa situazione come l'unico
possibile
mallevadore, nonostante la durezza delle sue posizioni verso l'una e
l'altra
parte. Ha un rispetto che l'Europa, con i suoi pronunciamenti
unilaterali,
non è riuscita a conquistare; così è rimasta fuori giuoco di nuovo.