NELLE VIE D’ ISRAELE PER RISPONDERE SECONDO LE NORME RELIGIOSE ALLO SCEMPIO DEI KAMIKAZE Gli ANGELI dei corpi perduti
lunedì 10 giugno 2002 La Stampa 0 commenti
                
GERUSALEMME 
IL peggio viene la notte, prima di riuscire ad addormentarsi: una 
sigaretta, un caffè , uno sguardo alle luci di Gerusalemme dalla 
terrazza di 
casa. Nelle camere la moglie Friedel e i nove bambini respirano 
piano, si 
lamentano un poco nel sonno, e Bentzi Oiring, corpulento, con la 
barba e i 
riccioli laterali, i pantaloni neri alla zuava e la camicia bianca da 
cui 
fuoriescono gli tzitzit (le piccole nappe) del piccolo manto di 
preghiera 
non riesce neppure a sedersi: quando è giunta all'obitorio la madre 
di quel 
ragazzino irriconoscibile per le ferite, si domanda, le ho detto le 
parole 
giuste? Ne avevo sistemato il volto in modo che lo potesse almeno 
guardare 
un'ultima volta? Quando alla pizzeria Sbarro ho rimosso il corpo del 
bambino 
dalla carrozzina, l'ho fatto con sufficiente amore e delicatezza? Nel 
fumo, 
nel fuoco, fra i corpi smembrati, mentre mettevo insieme i brandelli 
di 
quella donna, ho evitato di farmi prendere dal disgusto, ho pensato 
che 
l'uomo è fatto a immagine di Dio? 
Poco lontano un altro uomo ha pensieri analoghi, stavolta però sui 
vivi 
feriti, e anche lui non dorme mai, o talvolta, quando cade esausto, 
lo 
svegliano i sogni. E' astigiano di origine e porta un gran cognome: 
Artom. 
Elia, 52 anni, è infatti nipote del commentatore della Bibbia e 
rabbino Elia 
Samuele Artom. Il caffè di notte lui se lo fa con la macchinetta 
espresso, e 
pensa: « Quando io e i miei volontari del Magen David Adom, la Stella 
di 
David Rossa, siamo arrivati sul luogo dell'attentato, in 
quell'inferno di 
urla e di sangue, ho suddiviso bene i volontari? Ho evacuato per 
primi i 
feriti più gravi? Ho salvato più vite possibile? Quello che gridava 
in un 
angolo, e quello che invece non rispondeva... Siamo stati abbastanza 
veloci 
nel portare via quella ragazza ferita al torace, nel suturare la 
ferita di 
quel ragazzo cui era saltata via una gamba? Avremmo potuto salvarne 
uno di 
più , avrei potuto bloccare quell'attacco cardiaco letale? Avrei 
potuto 
essere più svelto?» . 
Li vedete sempre alla televisione, perché sono i protagonisti buoni 
dell'era 
del terrore: poco dopo che è scoppiata una bomba, arrivano su 
ambulanze 
urlanti due gruppi: uno porta una giacca bianca col simbolo della 
stella 
rossa, e sono i volontari di Elia; l'altro gruppo indossa la giacca 
bianca 
finchè ce n'è bisogno, poi si trasforma negli uomini con la gabbana 
gialla 
di Zaka, che nelle iniziali significa « identificazione delle vittime 
dei 
disastri» , detto anche Hessed ha emet, Misericordia della verità . 
Raccolgono 
e compongono le spoglie dei morti, anche nel loro più piccolo 
frammento. 
Prima arrivano con le ambulanze bianche gli uomini di Elia (« col 
giubbotto 
antiproiettile, perché entriamo prima della polizia, e tutto può 
ancora 
scoppiare» ) che suddivide la zona dell'attentato con numeri e assegna 
a ogni 
equipaggio di ambulanza un tratto di marciapiede, o di macerie, o di 
caos. 
Tutti i feriti chiamano « ma quelli gravi vanno cercati, perché non 
hanno la 
forza di chiamare» . La polizia grida di abbandonare il luogo. I 
volontari 
finiscono prima possibile di sgomberare i feriti, e lo fanno in 
genere a 
tempo di record; poi tutti vengono allontanati per verificare il 
terreno. 
Subito dopo Bentzi dà il via al suo lavoro: niente, proprio niente, 
deve 
restare insepolto, ogni uomo deve tornare al Cielo più intero 
possibile, 
ognuno è sacro fino in fondo alla strada. A ogni costo. 
Magen David Adom: Elia è il capo istruttore sia dei giovani volontari 
che 
dei veterani. In Israele ci sono 6500 volontari dai 15 anni in su, 
800 a 
Gerusalemme. I ragazzi delle scuole fanno a gara. I lavoratori fissi 
sono, 
fra paramedici guidatori di ambulanze e medici, 1500 di cui 150 a 
Gerusalemme. Nel 2001 le chiamate sono state 409 mila, in confronto 
alle 344 
mila del 1998. Le ambulanze sono di tre tipi, a secondo della gravità 
dei 
disastri. Ultimamente vengono messe tutte in campo: dentro una di 
queste, 
mentre è in atto una chiamata, Elia ci mostra il defribillatore, le 
macchine 
con la ventosa per la ventilazione (anche una piccolissima, per 
neonati), le 
bombole a ossigeno, i vari strumenti per suturare, eccetera. Dalia, 
che sta 
correndo verso una chiamata con tre volontarie diciannovenni molto 
calme, è 
una guidatrice di ambulanza: questo in Israele significa essere 
responsabile 
e capo della squadra a tutti gli effetti. Dalia ha anche un figlio, 
Elisha, 
di 18 anni, che è volontario: « Lo ritengo abbastanza grande per 
aiutare in 
qualunque circostanza. E del resto lui vuole assolutamente aiutare: a 
Ben 
Yehuda, dopo un attentato, ha trovato un suo compagno di scuola 
ferito, 
capisce? Però cerchiamo di evitare situazioni estreme ai volontari 
fra i 15 
e i 18 anni» . 
Elia, occhi azzurri e stanchi, parole brevi, viso aperto, ha un 
ufficio 
minuscolo bombardato di telefonate. I suoi quattro figli lo seguono 
sulla 
sua strada: Yaacov, di 25 anni, paramedico, Rifka di 23 che guida 
un'ambulanza, Aviad, di 20, volontario, e anche la piccola di 13 anni 
non 
vede l'ora di arruolarsi. « Quando li incontro nel caos, come nelle 
stragi 
del Caffè Moment, o della pizzeria Sbarro, è una enorme 
consolazione» . I 
volontari fanno corsi continui di aggiornamente: « Ne abbiamo 
addirittura 
troppi, al minimo devono fare un corso di 60 ore, sono preparati, ma 
nessuno 
può togliergli la terribile tensione del momento in cui l'ambulanza 
corre 
verso un inferno che non sai cosa sarà » . 
Zaka: Yehuda Meshizahav ci riceve in una specie di grotta nel 
quartiere 
religioso di Mea Shearim: in ottimo ordine e nella miseria di 
un'associazione volontaria a cui non molti pensano, i sacchi di 
plastica, i 
guanti, i raschietti, le asce per aprirsi la strada: « Noi siamo 604, 
si cui 
80 nella capitale. Le mogli telefonavano dicendo "mio marito dà di 
matto": 
abbiamo deciso di farci aiutare da uno psicologo che in sedute 
collettive ci 
aiuta a esprimere, a raccontare il nostro quotidiano rapporto con la 
morte. 
Pensi: noi guardiamo nelle tasche, nelle agende, nelle lettere, nei 
piccoli 
gioielli delle persone uccise per identificarle. E' difficile 
guardare 
quello che aveva in tasca un ragazzo di diciotto anni, o quello che 
c'era 
nella carrozzina di un bimbo: fino a un momento prima c'era tutta una 
vita 
da vivere. Molti di noi lavorano e piangono. E siamo noi a aiutare le 
famiglie a incontrare i corpi dei loro cari. Molti genitori svengono, 
moltissimi negano: impossibile, le garantisco che non è lei. E noi 
siamo 
sicuri che invece è proprio sua figlia. A volte strappiamo i bambini 
dal 
corpo inerte della loro mamma, o il neonato perito dalle braccia 
della 
madre. La mattina vediamo in foto, sorridenti, coloro che abbiamo 
raccolto 
in pezzi. E poi affrontiamo con le nostre mani, con il nostro corpo, 
indicibili orrori. Penso che, senza credere in Dio, non ce la farei» . 
Anche 
gli uomini di Zaka fanno corsi per imparare bene la fisiologia del 
corpo 
umano. E che cos'è , alla fine? « Qualcosa di vago, tragico, non 
garantito, 
che ritorna vero solo quando la sera abbraccio i miei figli» . 
            