NELLA CITTA’ SANTA TRA LA FOLLA DEI PALESTINESI « E’ stato il nostro s imbolo ma il suo tempo era finito» « Ci lascia poveri, con tanti morti» . Una don na: « Quelli che gli stanno attorno sono tutti mafiosi» . « Gli ebrei non lo hanno capito»
sabato 6 novembre 2004 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
C’ E da restare molto sorpresi a chiedere alla gente sulla soglia della
moschea di Al Aqsa alla Porta dei Leoni come si sente per Arafat, se ha
pregato per Arafat, come lo giudica...I giornali sono maestri di retorica,
ma la gente molto meno, chi la pensa in un modo e chi nell’ altro, chi è
arrabbiato, chi lo ama; ma certo la realtà che incontriamo in mezzo a una
folla fittissima e variegata è lontano dall’ unanimità del rimpianto che il
cordoglio cerimoniale gli attribuisce. « Arafat? E chi è Arafat? Dio? Io vado
alla Moschea soltanto per Dio» : elegante e vestito per la festa, diventa
tutto rosso di rabbia e ci volta la schiena inferocito, seguitando a
scendere sulla Via Dolorosa, uno dei 160mila fedeli di tutte le età che alle
dieci di mattina vanno verso la Moschea di Al Aqsa per la preghiera del
penultimo venerdì di Ramadan. La polizia non ha posto limiti di età
stavolta, forse proprio pensando che la tristezza per l’ aggravarsi delle
condizioni del Raiss andasse guardata con riguardo e apparente distacco, e
che gli ultimi tre venerdì sono passati lisci. Ma i giovani poliziotti
israeliani (sono mille solo sulle porte di entrata e altre migliaia in tutta
la città ), palesemente molto in guardia, controllano tutti gli ingressi e le
strade di pietra bianca e lucida di sole nella Città Vecchia; con calma ma
con determinazione rimandano indietro chiunque non sia identificabile come
un cittadino israeliano con la carta d’ identità azzurra. Chi l’ ha verde,
deve tornare a casa. La paura che alla fine della preghiera cominci la
pioggia di pietre sugli ebrei sotto il Muro del Pianto è grande: un serpente
di centinaia di uomini della forza speciale detta « Yamam» sta pronta sul
sentiero in salita che porta del muro del Tempio sulla Spianata a irrompere
se alla fine della preghiera scoppiasse la rabbia.
Primo venerdì senza Abu Ammar. Com’ è ? Vuoto? Triste? Fermiamo la gente che
come un fiume entra dalla porta dei leoni (Babel Assad per i mussulmani, per
gli ebrei Shar ha raiot) e poi al Babel Zahar e alla fine arriviamo dove non
si passa, il Babel Yehud sopra il Kotel, il Muro del Pianto. Sull’ angolo
dell’ entrata alla Porta dei Leoni, proprio accanto alla porta di pietra
antichissima, c’ è un riquadro, un cimiterino circondato da una ringhiera di
ferro: vi è sepolto Feisal Husseini, uno dei capi storici del Fatah: durante
il suo funerale tre anni fa Gerusalemme saltò per aria con scontri,
sparatorie, invasioni di folla micidiali; e vicino a lui, con altri membri
della sua nobile famiglia Gerusalemitana, anche alcuni rampolli della
famiglia Nashashibi, altrettanto nobili e storici rivali. Qui, si dice,
Arafat ha sempre desiderato essere sepolto, come un grande di Gerusalemme, e
probabilmente in queste ore la discussione sotterranea con Israele, che ha
detto un sonoro no, verte proprio su un’ alternativa possibile. Azmi,
guidatore di autobus, non da molta importanza a dove sarà sepolto il Raiss:
« Il suo tempo era venuto, è stato il nostro capo e il nostro simbolo per più
di 35 anni, adesso dobbiamo fare senza di lui. Ha sbagliato molte cose: a
volte ha avuto troppa paura degli occidentali, non ha attaccato quanto
doveva. Altre volte si è innervosito troppo in fretta. Del resto con un
nemico tanto terribile ha fatto quel che poteva. Ma ci lascia poveri, con
tanti morti. Non si può dire che ha fatto tutto bene. Però ha fatto del suo
meglio. Ora basta, è finita la sua epoca, doveva finire molto prima, e
quelli che sono venuti su con lui, non mi piacciono affatto. Sono tutti là a
dividersi la torta» .
« Banda di mafiosi» aggiunge senza complimenti un signore con giacca blu che
non vuole essere identificato neppure col nome proprio. Questa paura
dell’ identificazione è comunque di tutti, è come se ci fosse ancora una
grande soggezione nei confronti del capo, anche se è a Parigi, in ospedale.
« Un grande leader, io lo amo e spero che Allah lo salvi» sussurra una donna
anziana a braccetto con un’ altra che approva con la testa, vestite come
quasi tutte secondo i dettami della religione, coperta dalla testa ai piedi.
Fathma però , una 40enne tradizionalista anch’ essa, si ferma e interviene: « A
me, invece, non importa di lui: guardate in che condizione siamo. Io ho un
figlio in prigione, la mia amica un fratello morto... Doveva combattere per
vincere, non per rovinarci. Hamas? Forse è quello che ci vuole. Non mi
importa però neppure dei successori. Di più , non mi piace nessuno di questi
mafiosi che vedo in giro. Capisco d’ altra parte che la guerra non è finita,
ci vuole qualcuno che ci guidi. Non non ho nulla contro quelli che chiamate
terroristi, lo fanno per disperazione» .
L’ impiegato di banca Feis è più generoso con Arafat. Avrà trentacinque anni,
lo accompagna una moglie anche lei vestita in modo tradizionale, con gli
occhialini e il velo, che vuole assolutamente dirci che si chiama Samira:
« Se Abu Ammar se ne andrà noi resteremo comumque un grande popolo di
combattenti. Non c’ è che dire, lui ce l’ ha insegnato. Forse a Camp David
avrebbe dovuto dire di sì , e magari continuare comunque la lotta. No, non so
immaginarmi affatto di vivere fianco a fianco con gli ebrei, non penso che
Abu Abbas o chi per lui porterà la pace. Arafat era molto bravo e
intelligente, solo lui sapeva sempre cosa fare, come parlare, sapeva che
Sharon non vuole la pace, e quindi lo trattava di conseguenza. Gli ebrei non
l’ hanno mai capito, non hanno mai capito come si tratta un palestinese, lui
li ha rimessi a posto, sempre. Pregare per la sua salute? Dio sa quel che
fa, ma non si può più sperare che guarisca» .
Isham Getty (finalmente uno col nome e il cognome, se sono quelli veri)
sospira malizioso: « Era venuto il suo tempo, era circondato da corrotti, un
leader viene e uno va, ne verrà un altro, chi, Abu mazen? Mah! Non fa molta
differenza, speriamo sia uno che distribuisca i soldi al popolo, non solo ai
suoi uomini» . Due ragazzini di 16 anni, tutti sorridenti, Muhammad e Hassan,
ritengono che Arafat è stato grande, che aveva fatto il suo tempo. Hassan,
che è molto bello e vestito alla moda Nike specifica: « Certo, due stati per
due popoli, e che altro? Ma come fare...bisogna essere forti, loro sono
forti. Terrorismo non so cosa sia, non c’ è terrorismo, è guerra. Forse
doveva accettare Camp David. Alla fine, da una parte lo amo, ma dall’ altra
non è stato bravo, non abbiamo ancora niente. Comunque, ci vogliono in ogni
caso leader nuovi, completamente diversi, non come lui o i suoi amici,
neppure come Hamas» . E chi allora? « Io» dice molto serio. E c’ è da crederci.
La folla riempe le strade, si rovescia verso i negozi di pistacchi caldi,
frutta secca, dolci. Un mercato di balocchi, vestiti, scarpe a poco prezzo
attira decine di migliaia di persone che vivono e aspettano il futuro,
mentre a Parigi Arafat li lascia.