NELLA CITTA’ DELLA MUKATA DOVE IL PRESIDENTE E’ RIMASTO PRIGIONIERO DELL’ ESERCITO EBRAICO La festa tra le macerie « I terroristi sono lo ro» Mentre intorno ferve già la ricostruzione, al quartier generale dell’ Anp d i Ramallah è ancora tutto in rovina
venerdì 3 maggio 2002 La Stampa 0 commenti
RAMALLAH
SA di polvere e rabbia la giornata della liberazione di Arafat a
Mukata,
fra la folla di cittadini palestinesi e di VIP che visita il raiss,
che
guarda come al museo le rovine degli uffici circostanti al suo, che
invece è
stato risparmiato dal fuoco chirurgico. Il messaggio di Arafat è
tuttavia
chiaro, e dice così : « Sono molto arrabbiato, la politica comincia
domani:
per ora, prendetevi la mia ira» .
Esce la mattina il raiss dall'edificio in cui è rimasto chiuso per
trentuno
giorni. E' pallido, ma tutto sommato ha un'aria energica, e anche se
è
accigliato vibra con la folla che lo aspetta e lo accompagna tutta la
giornata, stringe mani, bacia i moltissimi visitatori importanti
(anche tre
deputati arabi del parlamento israeliano), si lascia avvicinare dalla
gente
nonostante la schiera di guardie che gli corrono dietro preoccupate;
vuole
dare anche il senso della vittoria ottenuta su Sharon che è stato
costretto
a liberarlo; vuole dare il segno della lotta dura che continua e
quindi
inveisce alzando la voce come non mai contro gli israeliani
chiamandoli
« nazisti» e « criminali» ; maltratta i giornalisti, li chiama
corresponsabili
dell'indifferenza del mondo, soprattutto per quel che riguarda
Betlemme;
grida e si infuria, ma non si dimentica, con i giornalisti stranieri,
di
dire di essere pronto a « the peace of the braves, la pace dei
valorosi, che
strinsi col mio amico Rabin» ; e alla folla, che lo osanna e gli grida
di
voler dare la vita per lui, sorride, si concede al suo entusiasmo nel
vederlo libero, intona in coro con essa: « Coll'anima e col sangue ti
riscatteremo, Palestina» . Fa il segno della V così a lungo che una
delle sue
guardie del corpo alla fine della mattinata gli sorregge il braccio
destro.
Mukata dove al mattino un sole enorme si mostra, rosso, dietro la
nuvola di
polvere, la notte ha visto rotolare via i carri armati. Le macchine
delle
guardie inglesi si sono avviate lungo la strada per Gerico con un
convoglio
in cui, uno per macchina, erano stati presi in custodia i quattro
assassini
del ministro israeliano Rehavam Zeevi , più Fuad Shubaki che ha
organizzato
il trasporto navale delle armi iraniane con la Karin A, e il capo
della
Fronte Popolare Ahmad Saadat.
Al mattino, Ramallah si sveglia ferita ma vitale: al check point c'è
una
animazione frenetica, poi la lunga strada d'accesso è ancora
addormentata ma
in città la vita ferve di nuovo con frenesia, di nuovo si grida alla
più
bella frutta nel mercato, nella piazza dei leoni un enorme ritratto
di
Arafat su cui i soldati hanno lasciato delle scritte guarda tuttavia,
molto
belligerante, i negozi aperti, il traffico intenso . Persino i
gioiellieri
hanno riempito le vetrine con l'oro rosso dei gioielli arabi, aperto
il
Beauty salon, la Cairo Amman Bank, il True Blue, abiti da sposa,
Hazen
Fashion, Sadi Shoes. Nelle strade danneggiate si lavora per
cancellare i
segni dell'esercito. Un albergo poco oltre, le Gemza Suites, ha già
chiamato
una compagnia incaricata di pulire dalla polvere: « Ripuliremo tutta
questa
zona, se non succede niente non ci vorranno più di due settimane» . Si
vedono
in giro anche elettricisti che riparano i cavi, poliziotti che
sorvegliano
la città ; ma a Mukata, là è tutto smozzicato, e sorprende l'enorme
quantità
di automobili sfondate, compresa quella del Capo dei Servizi, Rafik
Tirawi,
una Audi.
Entriamo brevemente nelle stanze attigue all'ufficio di Arafat (da
lui non
si può ) il fortino nel cuore dell'assedio: è la parte centrale
dell'edificio, che salvo sporadici scontri a fuoco non è stata
colpita nelle
strutture. Qui, c'è il residuo della confusione rimasta dal lungo
assedio,
bottiglie, residui di cibo e di giacigli improvvisati, una confusione
terribile, un'epica popolare di eroismo che avanza: Rafik Tirawi,
forse il
più vicino a Arafat in tutti questi giorni, racconta: « Arafat era
instancabile, e il più coraggioso di tutti noi. Non si è mai
sgomentato, ci
incoraggiava di fronte agli spari e ai carri armati. Una notte in cui
i
soldati israeliani ci hanno chiesto di uscire, lui ha deciso che
questo non
sarebbe mai avvenuto. Niente resa: o il martirio, o la vita» . Questo
spirito
di vittoria è quello che intanto Arafat mostra in giro per la città :
va
all'ospedale, al cimitero dove recita una preghiera, la folla grida
« Allah u
Ahbar» Dio è grande; una folla di giornalisti corre con i suoi uomini
armati
dietro la macchina che lo porta di visita in visita; alla vista dei
danneggiamenti e delle distruzioni, nasce la seconda epica di questa
vicenda, quella per cui lui insiste a chiamare gli israeliani
« nazisti» , e
criminali di guerra.
La rovina lasciata dall'esercito nel Ministero della Cultura viene
presentata una scelta di distruggere la cultura e il retaggio
palestinese,
come dice il ministro della cultura Yasser Abed Rabbo. Ritto su un
banco di
scuola di fronte a centinaia di bambini che dicono di essere pronti a
morire
per lui, Arafat li corregge: « Per la Palestina» .
A Mukata visitiamo le due ali distrutte: a destra c'è un grande
hangar di
macchine BMW, Mercedes, e anche una grossa Rover. Sono tutte
distrutte,
pancia a terra, tetto sfondato, bianche di polvere. Era il parco
macchine
del raiss. Un palestinese sui cinquant'anni di nome Nahim, molto
distinto,
con giacca e cravatta è contento che si tratti solo di auto: « In
fondo ne
avevano troppe» , dice; è un impiegato pubblico. Vorrebbe la pace
dice, ma
anche lui è convinto che gli israeliani non ne abbiano nessuna
intenzione;
il terrorismo non gli piace, ma ci dice ciò che sentiremo dire da
quasi
tutti gli interlocutori: « Il terrorismo? Di chi? Perché questo che
cos'è , se
non terrorismo?» . Ma aggiunge Nahim, meno male che il corpo centrale
dell'edificio è sano: si potrà ricostruire, se non tornano gli
israeliani.
Torneranno, purtroppo, suggeriamo, se ci saranno attacchi
terroristici. E
lui, di nuovo: « Quale terrorismo? Di chi è il vero terrorismo?» .
Nel quartier generale dei Servizi di Sicurezza di Tirawi, a sinistra
degli
uffici di Arafat, ci porta al piano superiore un ufficiale che fuma
una
sigaretta dietro l'altra. Tutto è rotto, i mobili sono per terra, una
stanza
è stata usata come bagno dai soldati che sono rimasti là dentro per
un mese;
soprattutto, i computer sono distrutti. « Possiamo - dice l'ufficiale
Abu
Leith - ricostruire la nostra banca dati, ma sono furioso,
disgustato,
arrabbiato per il danno immane che è stato fatto qui senza ragione.
Questa è
cultura? Questa è civiltà ?» . E ripete: « Quale terrorismo? Di chi il
terrorismo?» . Ci mostrano a lato del garage anche tre casseforti
sfondate, e
un impiegato ci dice che del denaro è stato rubato. Non abbiamo
conferma.
Arafat è di nuovo in ufficio; tutto il mondo si chiede dove andrà , se
a Gaza
lo aspetta un popolo stanco della guerra o delle fazioni avide di
riprendere
gli attentati; se andrà all'estero e in caso se Sharon lo lascerà
tornare.
Insomma il ritorno di Arafat porterà pace o ancora guerra? Certo, la
distruzione è grande, e con essa la rabbia; e il termine « terrorismo»
a
Ramallah non è associato affatto con la tragedia dei civili uccisi
nelle
città d'Israele, ma piuttosto con i soldati israeliani. Come faranno
dunque,
con questo punto di partenza, i leader a dire finalmente « no more
war» , come
fecero un tempo Sadat e Begin? Essi sapevano ambedue cosa fosse
« war» , la
guerra.