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Nella città dei patriarchi crogiuolo di fede e follia

giovedì 2 gennaio 1997 La Stampa 0 commenti
ANCHE la mamma di Friedman ha lanciato dalla tv un proclama stupefatto e accorato, come fece la madre di Ygal Amir, come fanno continuamente i parenti di Gold stein. Intanto alla stazione di polizia, vestito, una volta tolta la divisa militare, del suo bianco, quel piccolo manto di preghiera che i religiosi portano sempre sotto gli abiti, Friedman si autocelebrava con sorrisi e pugno chiuso in segno di vittoria gridando alle telecamere: shelanu mi as ve le tamid, sempre, alla faccia di qualunque pace. Alle 10 e un quarto di mattina qui, in piazza Gross, il vero punto di incontro fra ebrei e musulmani perché qui convergono le strade provenienti da Beit Hadassa, il centro ebraico, dalla kasba e dal mercato palestinese, Friedman, coi suoi occhiali e la sua kippa nera, da sei mesi nell'esercito (ma non di stanza a Hebron) è venuto al suo appuntamento con la storia che poteva essere molto ma molto più sanguinosa se in pochi secondi un altro giovane soldato israeliano di nome Avi Buskila, una specie di piccolo Dustin Hoffman giovane, non gli si fosse buttato addosso strappandogli l'arma e immobilizzandolo. , dice a tutti noi, e lo dice anche agli alti gradi dell'esercito che vengono a stringergli la mano, e anche al ministro della Difesa Yitzhak Mordechai, che parla un italiano straordinario imparato all'università di Firenze -, io e due miei amici medici ci siamo precipitati a portare i soccorsi. Ho visto che il ferito grave veniva subito spostato dagli israeliani, e ho anche visto una macchina che correva via di gran carriera; forse stava trasportando il soldato che aveva sparato. Fra poco diranno certamente che è un pazzo. Questa è la specialità degli israeliani: Goldstein era matto, era matto Amir, era matto Popper, ora sarà definito matto anche questo. Io sento invece che si tratta di un pericolo politico permanente, e noi palestinesi lo corriamo ad Hebron a causa degli estremisti ebrei almeno quanto gli ebrei a causa degli estremisti palestinesi. Chi ama la pace si deve porre il problema in parallelo: come proteggere loro, va bene, ma anche noi dai loro terroristi. Quando Rabin dette inizio con decisione al processo di pace, la società israeliana ne ebbe un autentico choc. Adesso che Netanyahu è pronto dopo sei mesi di esitazioni a restituire Hebron, comincia nella provetta del conflitto israelo-palestinese un movimento convulso centrifugo, destinato a scagliare in tutte le direzioni di nuovo pericolosamente gli estremisti che finora era stati contenuti sia da parte araba che da parte israeliana dall'illusione di aver fermato la pace. Ora ricomincia intorno a questo luogo, dove santità e follia vanno a braccetto, una danza che può portare o alla pace vera o alla guerra. La mattina arriva a Hebron Afath Jeidi, il capo della zona Sud per i palestinesi, e anche il generale che comanda tutta la polizia palestinese, Jibril Rajub. A passi decisi entrano in piazza circondati dalla folla, incontrano ritti sulla polvere i capi israeliani della zona, decidono insieme come contenere i moti d'ira popolare. I servizi d'ordine palestinese sono infuriati, ma la polizia lavora con garbo a contenere la rabbia popolare del mercato e invita la gente a non lasciare le case. I soldati israeliani si mobilitano ogni minuto, ritti sui tetti delle case e nelle garitte, girano a gruppi per le strade, e accolgono altissimi gradi dell'esercito, i generali Gadi Ofir e Uzi Dayan e poi anche il capo dei servizi segreti Amy Ayalon. Il ministro della Difesa Yitzhak Mordechai, che subito dopo correrà a un incontro col vice di Arafat Abu Mazen a casa dell'ambasciatore americano, giunge affranto, corpulento, indossando un giubbotto bianco; dice parole di grande rammarico: fermato a rischio della loro vita sono dei nostri. È così : in un esercito di popolo non c'è discriminazione ideologica. Ma se alcuni rabbini ordinano di disubbidire agli ordini dei generali, come reagisce lo Stato? questione a cui va assolutamente posto un rimedio. Io ho lavorato molto intorno al problema dell'influenza dell'estremismo religioso, e continuerò a lavorare intorno a questo che certamente è un problema grandissimo. Mordechai un paio di giorni fa aveva dichiarato, mentre molti altri ministri tentennano all'idea di votare lo sgombero da Hebron, che non ci si può certo giocare la pace su alcune case, ebraiche o no che siano. Ancora più deciso a non volersi giocare il tutto per tutto su Hebron è il capo di stato maggiore Amnon Lipkin Shachach che entra a Hebron alla fine della mattinata e va diritto a una riunione con i coloni proprio nella loro casa madre, Beit Hadassa. E mal gliene incoglie. Perché quel rabbino Levinger, che è il più duro di tutti, quello per cui le pietre delle tombe dei patriarchi non hanno prezzo né in termini di vite umane né di rischi di guerra, si alza in piedi, guarda in faccia il generale di tutti i generali israeliani, che è un noto democratico, ed è anche l'uomo nelle cui mani è la sicurezza di tutto lo Stato d'Israele, e gli dice: guardarti in faccia, perché mi fai schifo. Questo è lo stato d'animo odierno: una rottura profonda nell'imminenza della restituzione di Hebron, che Netanyahu ripete in queste ore di voler portare fino in fondo. Naturalmente Arafat temporeggia cercando di ottenere garanzie di sicurezza. Intanto il Paese intero si interroga disperatamente sul ventre da cui viene partorita tanta violenza. Fiamma Nirenstein

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