NEL GUSH KATIF MOLTI RIFIUTERANNO DI ANDARSENE Gaza Tra la rabbia dei coloni che restano
giovedì 11 agosto 2005 La Stampa 0 commenti
A cinque giorni da quando qui tutto sarà solo un cumulo di rovine, l’ impresa
agricola di Kfar Darom, nell’ insediamento più meridionale del Gush Katif,
funziona a pieno ritmo. E non ha nessuna intenzione di fermarsi. La
rimozione di ciò che sta per accadere è una sindrome che sembra colpire
circa metà degli 8000 residenti della Striscia di Gaza che stanno per essere
sgomberati. D’ altra parte, al di là di questo incredibile fenomeno, molti
cominciano a fare le valigie e a smantellare le strutture, senza clamore.
Nella Striscia ci sono più di quaranta gradi ma il capannone dentro è fresco
e profuma di verde: i suoi dirigenti, i suoi contadini, i suoi operai, le
sue macchine stanno per fermarsi per sempre e non lo vogliono accettare.
Kfar Darom, la cittadina più a Sud è fra le più ideologizzate, fra le più
decise a resistere allo sgombero. Nessuno, ci assicurano, qui aderirà alle
richieste di andarsene entro il 15 del mese, o al massimo nelle 48 ore fra
il 15 e il 17. La pena è draconiana: lasciare tutti i propri beni dietro di
sé , per sempre, e non ricevere i rimborsi che invece si ricevono
ottemperando a quella che è ormai legge dello stato, il disimpegno. Qui
nessuno se ne dà per inteso: « Pregheremo - dicono - ci sarà un miracolo» .
Le insalate, nella fabbrica di Kfar Darom, convergono in grandi casse di
plastica verde in un capannone dove parecchi ragazzi e ragazze (lavoratori
filippini o africani, oppure volontari con simpatia ideologica per i
settler) le selezionano, le frugano dentro il lucido cuore verde, le mettono
sotto fogli di plastica due a due. Per quanto tempo? Che intendete di fare
di queste macchine? Che cosa delle enormi serre bianche che sulla sabbia
producono insalata, sedani, basilico, prezzemolo, tutto organicamente e
senza insetti di sorta? Chi impacchetterà le macchine? Chi impiegherà i
lavoratori? Dove andranno a finire le ordinazioni?
Roni Ben Ephraim il direttore, comincia dall’ ultima domanda: « Tutto
continuerà , anche fra un anno. Non abbiamo mai mancato una consegna dalla
nostra nascita, abbiamo acquirenti in tutto il mondo come anche le altre
imprese di verdura e frutta organiche del Gush katif, che rappresentano l’ 80
per cento dei prodotti israeliani. Non mancheremo le consegne né questa
settimana, né la prossima, né fra un mese né mai..» . Per favore, signor Ben
Ephraim, scenda su questa Terra: questa fabbrica fra cinque giorni chiude i
battenti, perderete tutti i macchinari oltre al lavoro, l’ insalata resterà a
seccare nelle serre o marcirà nei frigoriferi, se non vi spicciate a
prepararvi a uscire. « Noi non ce ne andiamo, restiamo qui con le insalate,
con i nostri cari, preghiamo che ci sia un miracolo, io non ho fatto niente
di male e nemmeno i miei figli, o i miei nipoti, perché ci devono mandare
via da una bella terra, una bella casa, una bella azienda? Ecco vuole
un’ insalata? Gliela regalo. Se torna l’ anno prossimo, ne troverà un’ altra
uguale, anzi, migliore» .
I ragazzi intorno annuiscono, le ragazze con la gonna lunga di jeans e i
ragazzi con la kippà sulle ventitrè spiegano che nessuno se ne andrà , verrà
la polizia, verranno i militari, nessuno alzerà un dito naturalmente,
faranno quello che devono fare. Ci porteranno via? Ok, ci portino via.
Porteranno via la fabbrica a pezzi? Ok, la portino via. Noi non cediamo, non
muoveremo un dito, non ci arrenderemo ai terroristi come fa Sharon, non
ubbidiremo a un ordine insulso.
Eppure, ci racconta qualcuno, anche in questo insediamento c’ è chi tratta
col governo, chi vuole impacchettare. Sharon non si è arreso nemmeno davanti
alle dimissioni di Netanyahu, si comincia capire che è l’ ora di fare le
valigie. A Nevet Dkalim di fatto la capitale del Gush, non troviamo ormai
neppure il solito ristorante: chiuso. E ha chiuso anche il supermarket, e il
negozio di cosmetici. Qualcuno accetta la sconfitta.
Molti soffrono della sindrome della negazione semplicemente perché lo
strappo è eccessivo, perché il governo non ha saputo andare incontro alla
domanda da parte di alcuni villaggi di conservare loro la vita collettiva
cui sono abituati, di trasferire il gruppo tutto insieme, soprattutto dopo
che in questi quattro anni e mezzo hanno avuto tante perdite a causa degli
attacchi con i missili Kassam e con i Kalashnikov.
Poco più a Nord nella Striscia, a Netzer Hazani, su un grande prato verde
che funge da piazza in un villaggio senza automobili, in vista del mare, una
signora di 59 anni, Anita Tucker sorride quando le chiediamo se è proprio
lei la regina dei cherry tomato, quei pomodorini brillanti e rossi che ormai
sono su tutte le tavole. È lei: « Sono immigrata da Brooklin nel 1967. Tutto
qui era vuoto, sabbia e dune. Dir el Ballah, che si vede in lontananza, ora
è una grossa cittadina araba, allora era piccola, e i cittadini, le prime
persone che abbia incontrato dopo giorni di silenzio totale, vennero a dirmi
“ benvenuta” . Avevo già due figli, ora ne ho cinque. Mi sentivo un po’ pazza,
ma mi entusiasmavano il mare e l’ impresa di far fiorire il deserto, proprio
come al tempo del primo sionismo. In più , per noi che siamo religiosi,
valeva molto, come del resto ancora oggi, la memoria della presenza di
Abramo e di Isacco, che sono stati proprio qui, come è scritto nella Bibbia.
I miei pomodori sono il 15 per cento di tutta la produzione israeliana,
abbiamo fatto tutto con le nostre mani, ho tante ordinazioni e penso che le
onorerò una a una nei mesi a venire. Uno dei miei clienti più importanti è
Marks and Spencer» .
Anita che ha un buffo cappellino con la visiera su un viso bruciato dal
sole, racconta che lei e i rappresentanti di centinaia di altre famiglie
nella zona hanno cercato di trattare col governo condizioni che apparissero
ragionevoli per gli agricoltori, come una ricompensa decente: « E invece oggi
si arriva a mala pena al 60 per cento del valore delle nostre proprietà » .
« Verranno i soldati? Se verranno spiegheremo loro che non devono compiere
questo gesto folle e cattivo. E se ci porteranno via con la forza, mi
porterò via solo una valigia con le fotografie. Tutto il resto, addio» .
Cinque bambini ci guardano. Gal, Omer, Benny, Jonathan, Tomer, circa dieci
anni, aprono una finestra sul senso dello sradicamento ma anche
dell’ accettazione che prende piede: « Non saremo più vicini di casa; non
andremo più a scuola insieme; abbiamo paura che non faremo amicizia con
nessuno per tanto tempo» . « Il mio compleanno è fra un mese, non avrò nessuno
da invitare» . « Mia madre sta per partire, ha preparato tutte le valigie, va
via con il mio fratello piccolo, io resto qui con mio padre» . « Io no,
preferisco non vedere quando la mia casa verrà chiusa» . « Io sono andato a
vedere la casa che ci hanno assegnato a Nitzan: è bella e mio cugino Daniel
abita poco lontano» .
A Peat Sade, poco lontano, si capisce che il senso di una realtà incombente
e inevitabile lavora velocemente dietro le quinte anche se in queste ore il
grande rabbino Shapira lancia di nuovo ai settler l’ esortazione a non
muoversi e ai soldati a disubbidire: tuttavia la cittadina è ormai vuota,
resta qualche famiglia che mette per strada cartoni pieni di vestiti, libri,
pentole. Poco lontano, lo zoo del Gush Katif ieri ha smobilitato: i daini,
le scimmie, il cammello, i lucertoloni se ne vanno in gabbiette e scatole.
Come se la cavano?, chiediamo al direttore David Amichai. « Le scimmie sono
traumatizzate ma hanno mangiato, il cammello si impuntava e mordeva, le
lucertole si nascondevano. Alla fine, se ne sono andati tutti e io li andrò
a trovare a Ashkelon, a Ashdod, dove saranno sistemati, sopravvivranno.
Anche io sopravvivrò » .