NEL COMANDO Dove si decide la sorte di Betlemme
sabato 6 aprile 2002 La Stampa 0 commenti
                
GERUSALEMME 
IL peso della responsabilità gli tende il volto abbronzato dalle 
manovre 
all'aria aperta. Parla guardando nel vuoto: « All'inizio della crisi 
ho 
chiesto al comando supremo di lasciarmi andare personalmente, a costo 
della 
mia vita, dentro la Basilica a trattare con i Tanzim. Non ho avuto 
risposta. 
Seguitiamo senza sosta a trattare, la sorte della Basilica della 
Natività è 
tutta sulle nostre spalle, e con essa la sorte di ottanta persone che 
riteniamo ostaggi. Fra i palestinesi ci sono alcuni personaggi 
pubblici, 
gente importante, la cui presenza può aiutare o complicare la 
situazione 
nella trattativa. Non spareremo un colpo contro la Chiesa, ma non 
lasceremo 
nemmeno che quei 140 fra terroristi e sostenitori che stanno 
asserragliati 
là dentro se ne vadano via tranquilli» . 
Marcel Aviv è da due anni il colonnello che capeggia la zona di 
Betlemme; 
adesso, insieme al tenente colonnello Sharon Levi, il suo vice, ha 
sul collo 
la guerra della piccola Città Santa, su cui sono puntati tutti gli 
occhi e 
tutte le telecamere del mondo. Sulla piazza della Mangiatoia, carri 
armati, 
cecchini palestinesi appostati in alto, soldati israeliani che 
occupano le 
postazioni, un megafono che urla l'invito a uscire con le mani in 
alto. Il 
colonnello dice: « Vorrei andare dentro anche per guardarli in faccia, 
i 
quattro importanti notabili che stanno dentro con gli uomini armati e 
si 
rifiutano di uscire, rifiutano i nostri aiuti medici ai loro feriti, 
che si 
dice siano quattordici. Forse guardandoci in faccia ci si capirebbe 
meglio» . 
La guerra contro il terrorismo è molto seria nella cittadina da dove 
sono 
usciti molti terroristi suicidi e da dove il gruppo dei Tanzim spara 
su 
Gilo. Si tratta notte e giorno, senza un minuto di tregua. Ieri sono 
usciti 
quattro frati francescani, che hanno raccontato di essere stati 
minacciati. 
Com'è andata? Lo si dice a mezza bocca: un'allentata sorveglianza, un 
momento in cui, dice piano uno degli uomini del comando, i quattro 
frati 
sono riusciti ad avvicinarsi contemporaneamente alla porta e a 
chiedere agli 
israeliani di aiutarli a uscire. Il comandante sorride ricordando 
quel 
momento. « Sono fuggiti con il nostro aiuto!» , dice orgogliosamente 
Sharon 
Levi, che con Aviv ci accoglie sul campo per la prima volta. Mai 
prima 
l'esercito aveva lasciato che a Betlemme giornalisti mettessero il 
naso in 
un centro di operazioni di questa guerra. Nel quartier generale di 
Har Gilo, 
sulla cima di una montagna fra i villaggi arabi, sovrastante da un 
lato 
Betlemme e Beit Jalla e dall'altro aperto verso Gerusalemme, si è 
deciso che 
l'ingresso in Betlemme doveva avvenire, dice Aviv, da cinque parti 
diverse. 
Qui si sono raccolte le prime stupefacenti informazioni: la città era 
tutta 
quanta disseminata di congegni esplosivi nei tombini, una città tutta 
preparata con bombe lungo le strade. Inoltre, le case erano imbottite 
di 
tritolo: 19 appartamenti civili sono stati trovati, secondo 
l'esercito, 
pieni di esplosivo. Le armi illegali trovate sono circa duemila. 
Aviv ci dà un'appassionata versione della sua missione: prendere 
prigionieri 
i Tanzim, convincerli con la trattativa a lasciare andare i religiosi 
e a 
uscire, evitare il grande scandalo mondiale che si spari contro la 
Basilica 
del bue e dell'asinello. 
Sfida grande, ripete il colonnello mentre in lontananza, poco dopo le 
quattro del pomeriggio, si sente una grande esplosione che non 
riusciamo a 
interpretare, visto che è sul fianco di una collina, lontano da 
Betlemme. 
« La nostra missione può riuscire, usando grande pazienza. Senza 
fretta, 
senza che noi spariamo un solo colpo, mentre aspettiamo e ancora 
aspettiamo 
che la ragione prevalga» . 
Può però anche fallire, con un alto prezzo di vite umane e un prezzo 
insopportabile per Israele: la condanna dell’ opinione pubblica. 
« Perché le 
disgrazie possono sempre accadere» , dice Sharon Levi, e racconta per 
la 
prima volta che l'esercito israeliano ha accidentalmente ucciso il 
campanaro 
di Betlemme, Ibrahim Salman. « Siamo molto dispiaciuti, ma è stato un 
incidente che non abbiamo potuto evitare. Un uomo è uscito 
all'improvviso 
all'aperto, e si è messo a correre verso di noi. Gli abbiamo intimato 
l'alt, 
abbiamo sparato in aria e poi a terra per indurlo a fermarsi. Lui ha 
seguitato a correre verso i nostri soldati, con il comportamento 
tipico dei 
terroristi suicidi. Abbiamo pensato avesse una cintura esplosiva, e 
abbiamo 
dovuto sparare» . 
Ma come, non avete detto che non sparate mai verso la Chiesa? Verso i 
civili? « Non spariamo mai, a meno che qualcuno non ci minacci 
direttamente. 
Se la vita è in gioco, siamo costretti a farlo» . Diciamo al 
comandante che 
abbiamo visto nelle vie di Betlemme molta paura, che la gente è piena 
di 
risentimento e di rabbia, che ci sono macchine sfasciate, 
appartamenti 
danneggiati e sequestrati. Il colonnello risponde ricordandoci che 
quella è 
una cittadina molto calda, che non esiste l'opzione di evitare lo 
scontro. 
Di lì sono partiti molti terroristi suicidi, lì Hamas è molto forte, 
lì i 
Tanzim hanno organizzato le bande che hanno sparato fucilate e mortai 
verso 
il quartiere di Gilo. Lì è capitato che le automobili in strada 
andassero 
distrutte perché contenevano congegni esplosivi, o perché « questa è 
una 
guerra, e quindi è distruttiva» . 
La tragica battaglia di Betlemme, che da parte israeliana ha fatto 29 
feriti 
e un morto, ha un'incognita molto importante: il comportamento di 
quattro 
personaggi palestinesi che evidentemente l'esercito cerca di usare 
come 
mediatori, pur sospettando che siano interamente solidali con gli 
uomini 
armati. I frati fuggiti dicono di essere stati tenuti sotto la loro 
minaccia. I quattro sono: Mohammad El Madani, governatore di 
Betlemme; Madji 
El Atri, detto Abu Jihad, capo della sicurezza preventiva 
palestinese; 
Abdallah Daud, detto Abu Kassem, capo dei servizi di intelligence; 
Anthony 
Salman, capo del comitato di mutuo soccorso locale. « Come possono - 
dice 
Aviv - restare là dentro con tutti quegli uomini armati in un posto 
sacro? 
Come me lo posso spiegare? Come possono solidarizzare con chi 
impedisce ai 
preti e alle monache di uscire?» 
Nella notte che avanza su Betlemme, i punti interrogativi restano 
grandi. 
Nella Chiesa della Natività il dramma continua: ci sono dei morti 
palestinesi per mano israeliana, ma anche dei morti per mano 
palestinese, 
forse collaborazionisti. Le ambulanze non possono arrivare a 
sgombrare morti 
e feriti perché , dice il colonnello, « dobbiamo verificare fino in 
fondo che 
non portino terroristi e armi, come hanno fatto in passato. E i 
nostri 
medici, loro non li vogliono» . 
Gli ospedali lamentano la mancanza di generi primi e materiale 
sanitario. I 
terroristi restano asserragliati nella Basilica. Un rappresentante 
del 
Ministero degli Esteri, Gadi Golan, capo dell'ufficio Affari 
Religiosi, ci 
dice che monsignor Sabbah, il patriarca latino, ha tentato di dire 
che aveva 
dato lui ai Tanzim il permesso di rifugiarsi nella chiesa, perché gli 
israeliani li inseguivano. Ma la Chiesa di Roma l'ha prontamente 
smentito: 
violare le chiese non si può , è vietato agli israeliani, ma anche ai 
palestinesi. 
            