NEL CAMPO PROFUGHI CHE E’ STATO TEATRO DELLA PIU’ TREMENDA DISTRUZI ONE JENIN Fra le pietre della morte
mercoledì 17 aprile 2002 La Stampa 0 commenti
JENIN
CI sono ancora piante di gelsomino nei giardini di Jenin: entriamo
dentro
il campo profughi sospettato di nascondere un numero vasto,
imprecisato, di
corpi di palestinesi dopo una terribile battaglia lunga quasi due
settimane.
Silenzio, e rovine, e silenzio. Ogni tanto, qualche rara raffica. Il
giubbotto blu antiproiettile pesa ancora di più nel vento di Ham Sin,
forse
35 gradi di temperatura secca. Il cameraman della Bbc ha la faccia
rossa
dallo sforzo, sembra scoppiare. Siamo una quindicina di giornalisti,
ingoffati in elmetti e giubbotti. I soldati israeliani, dopo
insistenti
richieste, ci accompagnano prima con un autobus blindato fino
all'entrata,
poi con i veicoli corazzati, poi a piedi.
Giriamo per quattro ore. Finalmente si entra, possiamo vedere di
prima mano
i luoghi della battaglia e le sue rovine. Però ci pregano di non
allontanarci perché tutto è ancora incerto: molte mine e varie
trappole
esplosive (le booby-traps) sono ancora attive. Nel silenzio di Jenin
deserta, tutta in salita, i soldati raccontano la battaglia,
spiegano, sanno
che il mondo li accusa di aver seppellito corpi in fosse comuni, di
averli
nascosti, di aver compiuto una strage. Vogliono rispondere, si
indignano,
spiegano e spiegano come sono andate le cose secondo loro, contro la
versione dei palestinesi che parlano di una battaglia indiscriminata
con
militanti armati e civili nelle case, di strage, di uccisioni a
centinaia,
di fuga disperata dei sopravvissuti. Mentre gli israeliani
raccontano, al
contrario, di Jenin come fortezza spietata di terroristi, quasi priva
di
civili dall'inizio, tutta attrezzata come una trappola mortale, in
cui non è
stata compiuta nessuna strage, ma dove si è svolta una dura battaglia
con 23
morti israeliani e fra 50 e 70 palestinesi.
L'angoscia palestinese si mostra d'un tratto, mentre cerchiamo di
capire
come sono andate le cose: da lontano, dietro le rovine delle case,
dove gli
edifici sono in piedi ma tutto sembra deserto, compaiono tre donne:
una
vestita di nero, giovane, e due di grigio. Tutte col corpo e il capo
coperti
secondo la tradizione. Vengono avanti con decisione: apparizioni
improvvise
nella città che sembra morta, fantasmi dietro un fumo alto di polvere
bianca, una nuvola spessa e appiccicosa che circonda Jenin e rende
spettrali
anche noi giornalisti. Un soldato mi leva con un dito la polvere
dalle lenti
degli occhiali: non mi ero accorta di non vedere quasi niente, in
un’ atmosfera ipnotica. I giornalisti e una ventina di soldati
israeliani
sulla piazza della battaglia principale, in fondo a una via tutta
distrutta,
Al Awda, in bilico sulle pietre delle rovine; le donne provenienti da
uno
sfondo lontano, da cui germoglia infine un codazzo di bambini.
Donne e bambini vengono vicino, poi vicinissimo, con le mani levate
verso il
viso dei soldati, l'indice puntato. Urlano invettive, fanno gesti
inequivocabili che mostrano le rovine, accusano, descrivono disastri
e vite
distrutte. Indicano un appartamento in alto rimasto mezzo intero, in
cui,
nel salotto, si vede uno di quei poveri pomposi divani rossi di
damasco che
vanno molto da queste parti. La nostra vita è stata spezzata,
vogliono dire.
Gridano accuse che riguardano morti sotto le rovine, fughe e paura, e
poi
dicono che hanno fame, che non c'è niente da mangiare. I palestinesi
sono
arrivati a accusare i soldati della morte di 500 persone, anche se
adesso i
grandi numeri sembrano rientrati; le donne indicano le pietre, dicono
che
sotto ci sono i morti.
I soldati le lasciano completamente libere, in quella città occupata,
di
arringare i giornalisti quanto vogliono: si fanno filmare dalle tre o
quattro tv presenti, ci urlano in faccia guardandoci negli occhi. I
soldati
immobili non muovono un dito, ritti accanto a noi come ci avessero
portato a
visitare un museo, uno di loro mormora piano: « E' logico che dicano
la loro.
Si può capire. C'erano delle vite qui, c'erano delle case, delle
famiglie,
la guerra ha una brutta faccia anche quando è una guerra
inevitabile» . Il
soldato si chiama Avi, è come immobilizzato, si vede che sente un
rimorso di
fronte a queste donne. Gli chiedo direttamente se ha visto nella
battaglia
ormai lunga quasi due settimane qualcosa di cui si deve vergognare.
Risponde
di no e di no, indignato a sua volta: « Io, pacifista, ho visto le mie
città
a ferro a fuoco, qui ho solo difeso il mio Paese ferito e l'ho fatto
con
estrema attenzione ai civili, attaccato senza pietà da terroristi
suicidi» .
Le donne continuano a gridare forte. Alcuni uomini plaestinesi, in
lontananza, nella città che sembrava morta, escono all'aria da case
lontane.
Ma non si avvicinano.
Gli israeliani sono categorici: alla fine di questa storia, dice un
biondo
coperto di polvere bianca, il vice comandante Raffi Ledemann, si
vedrà che
qui ci sono stati sì e no una cinquantina di morti. « E capite che io,
che
vivo a Geruslamme, ho una bambina di cinque anni a casa. Io non sono
un
soldato di professione, sono venuto con entusiasmo, come gli altri
riservisti, a rischiare la vita perché ci fanno a pezzi, lottiamo
solo per
la nostra casa» . Parla ritto di fronte all'accampamento, denso di
carri
armati e di soldati che si riposano o si preparano in tende verdi che
salgono fino alle pendici di una foresta, fra i carri armati
parcheggiati.
Sventola una bandiera. E' il giorno della Memoria dei soldati caduti
nelle
guerre d'Israele: 22 mila, e qui ce ne sono 23 di pochi giorni fa.
D'un
tratto suona la sirena e tutti si immobilizzano a testa china in
mezzo alla
più grande confusione, i mezzi corrazzati aspettano con i portelloni
aperti.
Che cos'è successo di particolare qui, cominciamo a domandare, perché
qui e
non altrove si è arrivati a parlare di strage, perché avete buttato
giù
tutte queste case, dove sono i corpi? Ledemann spiega prima di tutto
una
cosa che secondo lui nessuno di noi giornalisti ha ancora capito: che
è
stata una battaglia tremenda, che oltre ai morti ci sono stati fra
gli
israeliani 70 feriti: « E adesso vi faremo vedere perché » . L'ufficiale
Dudu
Zeingen, un chirurgo dell'ospedale Hadassa di Gerusalemme, il cui
beeper
continua, anche qui, a chiamarlo in sala operatoria nel suo ospedale,
mentre
cominciamo a salire insiste: « Noi siamo tutti riservisti. Gente di
sinistra,
di destra, pacifisti, giovani, meno giovani, insomma non siamo
militari di
professione. Noi avevamo fatto un piano molto cauto: abbiamo tutti i
bambini
a casa che ci aspettano (io ne ho quattro). E non solo. La nostra
motivazione ideologica è chiara: sopravvivenza. Siamo pieni di orrore
all'idea che ci possiate considerare autori di una strage. La verità
è che
da Jenin sono usciti circa il 50 per cento di tutti gli atti
terroristi di
questa Intifada. E' una città particolare: un'intera città preparata
a un
grande scontro, attrezzata per il momento in cui fossimo entrati a
cercare i
terroristi e i guerriglieri» . Vediamo uno striscione su cui
campeggiano
insieme Arafat e Marwan Barghuti, il leader dei Tanzim e delle
Brigate di Al
Aqsa appena catturato; ma Hamas, la Jihad erano altrettanto forti,
tutte le
organizzazioni avevano creato a Jenin una forte base di resistenza.
Ci arrampichiamo sulle strade, verso l'alto, esattamente seguendo
l'ingresso
da Nord, e la sensazione di pena è grande vedendo tanta distruzione.
Il
piano, ci spiegano, era entrare da ogni parte per spingere i
militanti nella
piazza centrale in basso. Un assurdo albero rosa campeggia come un
fuoco
d'artificio fra le case che mostrano relativi segni di distruzione
perchè
sono fra le prime case attaccate. « Qui siamo entrati - racconta
Shmuel
Tomel, un pediatra che sotto l'elmetto porta la kippà di religioso -
pensando a una battaglia regolare di casa in casa, e abbiamo trovato
una
sorpresa. Ogni pochi metri per terra c'era una trappola esplosiva, la
cittadina era imbottita, anche in alto sui muri quei buchi erano
pieni di
esplosivi destinati a noi; avevano preparato un'accoglienza davvero
speciale. Ecco questi fili bianchi per terra. Vanno dentro le case
collegati
a congegni ellettrici, detonatori» .
I fili sono un vero labirinto di lungo percorso: da dentro le case
venivano
attivati in vista dei soldati, mentre i militanti sparavano. Tomel
racconta
che la resistenza è stata condotta con ogni mezzo: quando hanno fatto
venire
avanti due anziani a mano alzate, dietro di loro c'era un militante
nascosto, che si è messo a sparare; un bambino di sei anni aveva una
sporta
di esplosivo in mano e l'ha semplicemente posata quando gli hanno
chiesto:
« Che cos'hai là dentro?» .
E' qui che i palestinesi raccontano di fughe disperate di madri con
bambini,
di gesti di proditoria violenza. « La verità che io ho visto - dice
Tomel - è
quella di un terrorista suicida che ci si è buttato contro, di
furiosi
muraglie di fuoco e soprattutto di un grande uso di esplosivi.
Avevamo già
avuto dei caduti, ma quando abbiamo avuto i tredici uccisi abbiamo
deciso di
usare anche i bulldozer: avremmo tentato di fare di tutto per salvare
anche
le vite dei palestinesi, ma dovevamo pensare alle nostre. Questa è la
ragione delle case distrutte» . Ovvero? « Dove sapevamo che c'erano
terroristi
appostati, abbiamo agito per imprigionarli: abbiamo sempre avvertito
di
uscire dalle case, molto prima di agire. Poi, le ruspe» .
Gli israeliani, al contrario dei palestinesi, raccontano che qui non
c'era
già quasi più nessuno, la popolazione civile dopo la militarizzazione
del
villaggio era sparsa in villaggi vicini per una buona parte.
L'esercito ha
catturato gli uomini fra i 15 e i 50 anni per poi arrivare a
identificarne
150 come combattenti, e pensa di averne uccisi circa 50 nell'area
centrale
della cittadina. E' possibile che ci siano corpi sotto le rovine? E'
possibile, dicono, ma secondo loro i numeri sono, appunto, « poche
decine» :
« Abbiamo usato metodi puntali, se avessimo voluto uccidere avremmo
usato gli
aerei. Invece, oltre ai soldati che rischiavano le loro vite casa per
casa,
abbiamo impegati alcuni missili di precisione» .
I palestinesi denunciano invece un vasto uso di missili, un gran
numero di
morti, sia militanti sia civili. Ma questi morti, per quel che
riguarda la
verità sia israeliana sia palestinese, per ora sono in un numero non
definito. Anche delle fosse comuni - i palestinesi le denunciano -
gli
israeliani parlano di una grande bugia. La Croce Rossa, che vediamo
da
lontano mentre si attiva alla ricerca dei corpi di fronte
all'Ospedale,
secondo gli israeliani ha ricevuto in consegna alcuni corpi, chi dice
7 e
chi 9. La storia che circolava nei giorni scorsi di un camion
refrigeratore
contenente tanti corpi nascosti è sparita dalle cronache, sembra che
si
trattasse in realtà di un camion di verdura.
Ramaneh, Zhouba, Taiiba, questi sono i nomi di alcuni fra i villaggi
dove
adesso si trovano circa 800 palestinesi in fuga da Jenin: « Chiunque
se ne
sia voluto andare, che non appartenesse alla tipologia dei sospetti e
che
non ci avesse sparato addosso, lo abbiamo lasciato andare. Inoltre -
dice
Dudu - io personalmente ho curato qualsiasi ferito, nostro e loro.
Per me un
ferito è solo tale, io sono un medico, ma quando mi hanno portato dei
ventenni con i simboli di hamas tatuati sulle braccia e gli occhi
pieni di
odio, lo stesso che si vede sui loro muri dentro e fuori le case,
tappezzati
soltanto delle foto dei "martiri", gli shahid, allora il compito è
difficile» .
Oltre alle foto degli shahid, ovunque vediamo segni di vita spezzata:
un
negozio distrutto di un semplicissimo sarto mostra due vecchie
macchine da
cucire Singer elettriche, fili colorati e una scatola di tè con un
fornellino in mezzo alle rovine, e anche un ritratto dello shahid
Raed
Carmi. I palestinesi esclamano che la vita dei civili non è stata
rispettata. Gli israeliani, che qui c'era ormai una vera fortezza.
Quasi
montiamo su una piccola bomba domestica, ci blocca un soldato che
subito ne
chiama altri per isolare l'ordigno. In lontananza una delle donne
continua a
inveire. Sotto le macerie, un mistero che resterà forse fra le molte
incomprensibili cupezze di questa guerra.