Nei kibbutz della grande paura Tra i coloni vittime della batta glia infinita VIAGGIO SUL FRONTE CALDO DEL MEDIO ORIENTE FIRMAXXXXrepo rtage Fiamma Nirenstein
sabato 6 maggio 2000 La Stampa 0 commenti
                
ALTA GALILEA 
LA gente del kibbutz Manara ha paura, sottovoce si domanda se sia 
ancora il 
caso di restare su quel poggio incollato al Libano ad aspettare le 
bombe e 
le katiusce ora che l’ esercito sta per abbandonarla. Non dimostra con 
pianti 
il suo terrore: la gente del kibbutz è spartana ma bambina, avvezza a 
compiti chiari: adesso è confusa. Non conosce la disoccupazione e la 
fame, 
ma è abituata a vivere con poco: però adesso è troppo poco. La paura 
è 
diventata un imperativo, un sentimento con cui adesso cerca di 
misurarsi con 
integrità . 
Mercoledì sera l’ inferno di katiusce che si è rovesciato sull’ Alta 
Galilea è 
caduto a casa loro, il soldato ucciso si trovava a un km di distanza 
dai 
giochi dei bambini alle sei del pomeriggio, fra i tigli, sulla 
collina 
ripida del kibbutz affacciato sul Libano. Le sirene sono scoppiate in 
urli, 
senza nessun avvertimento: « I miei bambini Naveh di otto anni e Stav 
di tre 
e mezzo erano fuori, nessuno ci aveva avvertito del pericolo» . Minuta 
e 
dura, Lilach Shai, una 30enne rossa di capelli, piccola e accigliata, 
è 
tornata di corsa a Tel Aviv per beccarsi una nottata di fuoco, le 
katiusce 
che cadevano nei dintorni di casa sua facendo morti e feriti, gli 
F-16 che 
rombavano carichi di bombe verso il Libano. « Ho viaggiato col cuore 
in gola, 
non sapevo cosa fosse successo ai bambini. E per strada mi figuravano 
una 
sequela di giorni, nel futuro, uguali a questi, giorni di paura, da 
quando 
tra poche settimane i soldati si ritireranno dalla zona di sicurezza 
e noi 
diventeremo la prima linea sul fronte con gli hezbollah. Che con 
quest’ ultima pioggia di fuoco ci mandano a dire: non ce ne importa 
nulla che 
i soldati se ne vadano. Noi continueremo a colpire i civili» . 
Lilach si dichiara pronta a separarsi da Manara, ad andarsene anche 
se c’ è 
nata: la strada su cui i bambini tutte le mattine vanno a scuola sul 
pulmino, e che è l’ unica strada di accesso al kibbutz (anche noi con 
l’ automobile giungiamo da questa via), sarà da fine giugno il 
confine. Si 
vedono vicinissimi due fili spinati paralleli con la terra battuta 
nel 
mezzo: per un poco gli abitanti del kibbutz hanno sperato che quello 
150 
metri più in là fosse il prossimo confine, la linea tracciata nel 
1982. 
Invece pare (« ma nessuno ci dice mai niente!» ) che Ehud Barak, il 
primo 
ministro, abbia deciso per i confini internazionali del 1923, ovvero 
per la 
linea che aderisce alle ultime case di Manara e degli altri kibbutz 
di 
frontiera. La madre di Lilach, Bakia, una bella signora con i capelli 
grigi 
che ha messo su un pollaio, ha coltivato le mele e l’ uva ed è stata 
maestra 
d’ asilo essendo una fondatrice dei kibbutz, esprime la sua 
solidarietà alla 
figlia nonostante una biografia completamente diversa: « Sono giunta 
qui nel 
‘ 57, quando ci dicevano che vivere sul confine aveva un senso 
fondamentale 
per la vita del Paese. Questo è anche il kibbutz della sorella di 
Yztchak 
Rabin, Rahel, una donna meravigliosa, una cara amica. Non è mai stato 
facile 
vivere qui: prima c’ erano i fedayn palestinesi, le loro incursioni 
notturne, 
le stragi, gli attentati ai bambini. Poi sono arrivati gli hezbollah 
con le 
katiusce e i loro congegni ad orologeria. Nel frattempo, l’ esercito 
andava e 
veniva. Una grossa bomba è scoppiata una settimana fa qui, a 
Tzipporen, su 
quel poggio che vede poco lontano: ci hanno fatto vedere che, zona di 
sicurezza o no, siamo sempre alla loro mercé . Ora tutte le notizie 
dicono 
che hezbollah e fedayn, una volta che se ne vada l’ esercito, 
compiranno 
attentati contro Israele. Non so biasimare mia figlia che vuole 
andarsene: i 
bambini non possono affrontate all’ andata e al ritorno da scuola un 
viaggio 
in pulmino, un bersaglio fantastico sul confine, senza l’ esercito 
piazzato 
tra noi e loro. Già alcune famiglie stanno pianificando di spostarsi 
nei 
kibbutz del centro: “ Qui non c’ è futuro” , dicono. Io spero nell’ Onu. 
Non me 
andrò , ma solo perché le mie radici sono qui. Nel ‘ 78 due compagni 
del 
kibbutz furono fatti a pezzi da una katiuscia. Rimanemmo nei rifugi 
per tre 
mesi» . « Allora i bambini avevano le loro case, non dormivano con i 
genitori, 
e la nostra stanza era connessa al rifugio, era tutto un andare 
avanti e 
indietro. Un genitore a turno - racconta Lilach - restava con noi, ed 
era 
lui a chiudere la porta blindata con un enorme chiavistello, che 
sogno 
ancora. Non è pensabile che questo chiavistello possa entrare negli 
incubi 
dei miei bambini» . 
Sulla strada passano i mezzi militari e lavorano le ruspe che 
spianano la 
via al « ritiro» . Non è d’ accordo con Lilach suo marito Motti, 38 
anni, un 
fisico nervoso e iperattivo, gli occhi nerissimi e allegri, 
segretario del 
kibbutz, « era previsto, è nella storia del processo di pace. Non si 
poteva 
fare diversamente. Soltanto, è incredibile che uno Stato democratico 
non 
consulti i cittadini, non ci abbia parlato ancora del nostro futuro. 
Manara 
è sempre stato un posto povero, siamo rimasti solo in 110 compagni e 
60 
bambini. Per vivere qui nonostante i pericoli, lo Stato deve far sì 
che ne 
valga la pena: deve migliorare le nostre vecchie brutte case, darci 
possibilità di produrre, di costruire servizi per il turismo... 
andarsene, 
però , no: abbiamo un compito qui diverso dal passato ma forse ancora 
più 
importante. Dimostrare la possibilità di pace con i nostri vicini. 
Dirlo 
oggi è un po’ bizzarro: nei kibbutz siamo divisi “ fifty-fifty” . Però 
siamo 
tutti d’ accordo su una cosa: vogliamo una vita tranquilla, mezzi 
economici 
che ci consentano di resistere alla pressione psicologica. E un 
esercito 
forte stanziato sul confine: i nostri vicini non sono né svizzeri né 
francesi» . 
Tamar, la contabile del kibbutz, ha tre figli piccoli. I suoi occhi 
azzurri 
sono sbarrati dalla rabbia: « Non ce l’ ho con Barak che ha deciso il 
ritiro 
anche se si illude che sia una soluzione magica che renderà buoni gli 
hezbollah. Ridicolo. E tanto meno ce l’ ho con i movimenti delle 
” Quattro 
madri” dei soldati in Libano, con il movimento pacifista che ha 
chiesto che 
i nostri soldati smettano di morire in un posto assurdo dove non 
abbiamo 
niente da fare. Le madri che lottano per i lori figli hanno ragione. 
Ce l’ ho 
con me stessa. Non ho saputo mettere in piedi un altro movimento 
altrettanto 
forte per difendere i suoi bambini» . 
            