NEI GIORNALI LA CAUSA PALESTINESE NON RISCUOTE PIÙ SIMPATIE UNILAT ERALI: COSÌ È MATURATA LA SVOLTA Medio Oriente, l’ ora del rimorso
mercoledì 31 luglio 2002 La Stampa 0 commenti
                
Fiamma Nirenstein 
ALLA fine degli anni 60 e nei 70 chi si avventurò nella professione 
di 
giornalista visse un'era meravigliosa: quella degli aggettivi e della 
libertà . Su un giornalismo di informazione e poche inchieste giunse 
in tutto 
il mondo un'ondata di letteratura, di colore, di desiderio di 
affascinare il 
lettore, mentre intanto il boom dei settimanali, giovandosene assai, 
tuttavia regolamentava con regole espressive l'afflusso di aggettivi. 
La tv 
impose nuovi standard, e anche la rivoluzione giovanile. La scrittura 
colorata servì soprattutto a portare al lettore i forti sentimenti 
rivoluzionari della generazione che ora domina nei media; sull'onda 
del 
Watergate e di Camilla Cederna, sulla spuma di inchieste nel 
Meridione 
d’ Italia e del mondo, alla ricerca dei vizi e dei difetti della 
borghesia 
internazionale e italiana, un'intera generazione si mise a scovare, 
annusare, attaccare, ironizzare per il bene dell'umanità ; a 
distinguere 
buoni da cattivi, oppressori da oppressi, con l'indice levato e la 
bella 
scrittura. I poveri venivano descritti - e tuttora è così - con forza 
emotiva, con adesione brechtiana. Siamo nati e siamo rimasti freedom 
fighters, combattenti della libertà ; e siamo rimasti tutti Hemingway 
più o 
meno riusciti. La generazione che ora copre i conflitti più 
importanti e li 
commenta, i quaranta-cinquantenni, ha avuto e ancora in parte ha più 
bisogno 
di giustizia che di verità . 
È così che abbiamo preso molti abbagli; ma oggi, in tempi moderni, 
sembra 
(sembra!) che ci stiamo di nuovo avviando a una trasformazione ovvero 
a un 
giornalismo di giustizia che comincia tuttavia a chiedersi dove essa 
stia 
poi veramente di casa; prendendo in considerazione il conflitto in 
Medio 
Oriente, uno degli argomenti più importanti sui giornali, e quello 
comunque 
di cui la cronista è più esperta, abbiamo una parabola e un'epitome 
in 
questa importante vicenda. 
La copertura di cronaca e il commento dell'attuale Intifada è certo 
stato 
migliore da parte dei corrispondenti che degli inviati (esclusi gli 
abitué e): almeno, in una situazione tanto intricata, avevano elementi 
di 
giudizio. E tuttavia, la strenua caccia al sentimento, e il desiderio 
di 
quella che è apparsa loro giustizia per un popolo povero, e comunque 
ritenuto oppresso più da Israele che dai suoi leader, ha travolto la 
stampa 
internazionale fino a poco tempo fa: i motivi sono tre o quattro di 
seguito 
enucleati rapidamente. 
Prima di tutto la parola Intifada ha risuonato pavlovianamente in 
chi, 
magari, l'aveva già coperta una volta; ha indicato cioè di nuovo lo 
schema 
dell'87, quando le città palestinesi erano, prima di Oslo, occupate. 
Quindi 
è piaciuto immaginarsi di nuovo che ci si trovasse di fronte a una 
rivolta 
di popolo, i bambini con le pietre in mano contro carri armati che 
invece 
erano già usciti da due anni. Secondo punto: nelle città ormai in 
mano 
palestinesi e armate con le armi di Oslo consegnate a Arafat, uno 
strategico 
misto di miliziani e popolazioni, più una frangia (destinata a 
crescere 
enormemente fino a investire il cuore della società stessa) di 
terroristi 
davano vita a una guerra molto complicata, difficile da capire, in 
cui non 
funzionava l'eterno schema bellico esercito/civili; e soprattutto, la 
scelta 
religioso-autolesionista (poi palesatasi nel nome di Al Aqsa e nella 
miriade 
di attacchi suicidi) era così nuova da rendere difficile 
identificarla. 
Terzo punto, un insistente e vuoto civettare con l'idea che forse non 
era 
proprio Arafat ad aver rifiutato le proposte di Barak, ma viceversa, 
ovvero 
l'ignoranza del background storico pure più volte testimoniato da 
Clinton 
oltre che da altri personaggi al di sopra di ogni sospetto. Questa 
che uno 
psicanalista francese chiamerebbe « sconoscenza» ha fornito l'alibi 
per 
ignorare le cause del conflitto. Infine: l'enorme difficoltà 
nell'accettare 
che i giornali e i discorsi degli uomini politici arabi, i libri di 
testo, 
le tv si riempissero di orribile antisemitismo classico (con la 
demonizzazione degli ebrei e l’ invito a ucciderli ovunque si trovino, 
con la 
loro identificazione con gli assassini di Gesù , con la negazione 
della 
Shoah) hanno creato una cecità morale sulla gravità dell'odio che ha 
creato 
l'ondata di terrorismo suicida. Essa si è abbattuta sul giornalismo 
trovandolo completamente impreparato. Così lo schema 
scrittore-freedom 
fighter si è infranto sull'impossibilità di raccontare le cause, la 
storia, 
l'emozione di uno dei fenomeni contemporanei più importanti del 
nostro 
tempo, il terrore. Esso solo ora comincia a essere narrato. E anche 
le 
organizzazioni umanitarie cominciano ad accorgersene dopo due anni 
dal suo 
inizio, come si verifica dall'ultimo rapporto di Amnesty, che 
finalmente 
parla del terrorismo come crimine di guerra. 
Ed eccoci all'oggi: molti sintomi importanti parlano di una svolta. 
Il Los 
Angeles Times ha pubblicato una lunga inchiesta del giornalista Lee 
Green 
del 20 luglio dal titolo « Le radici del martirio affondano presto nel 
West 
Bank» , sul mito terrorista fra i bambini; oppure su Die Zeit del 7 
giungo, 
« Arafat bombarda, l'Europa paga» , sull'uso dei soldi europei per 
finanziare 
il terrore; o ancora l'8 luglio, sul New York Times, di Ian Fisher, 
« Per gli 
israeliani feriti negli attacchi terroristi, la ripresa è una 
battaglia» ; o 
nella serie in cinque parti della Cnn Vittime del Terrore. Anche in 
recenti 
reportage sull'attacco israeliano a Gaza, in cui oltre 
all'arciterrorista 
capo di Hamas Shehaidah (stava preparando sei attacchi, ed era 
responsabile 
più o meno di 200 assassinati israeliani) sono stati uccisi 
dall'aviazione 
israeliana 13 civili, sono state prese in considerazione le scuse di 
Israele, che ha più volte dichiarato di avere avuto indicazioni di 
intelligence sbagliate. 
Vari elementi hanno portato a questo cambiamento: in primo luogo la 
caduta 
libera del mito di Arafat, quando sono stati scoperti i documenti che 
lo 
legano al terrore, quando via via ha sempre rilanciato e lodato il 
terrorismo suicida, quando è stato direttamente contestato da 
intellettuali 
palestinesi e arabi sulla questioni della onestà , della volontà di 
combattere il terrore. In secondo luogo, il rimorso giornalistico, 
stante la 
legittimità evidente di criticare Israele e di simpatizzare con la 
sofferenza del popolo palestinese, per due elementi di cronaca 
continua e 
sovrastante: l'antisemitismo che ha preso piede nel mondo a seguito 
della 
demonizzazione degli israeliani spiccando il volo a Durban, dall'Onu, 
dalle 
organizzazioni per la difesa dei diritti umani e dalle Ong; l'enorme, 
tragico accumulo di bambini, donne, famiglie intere fatti a pezzi 
sugli 
autobus, a scuola, ovunque; di feriti giovani rovinati per sempre. Le 
cronache non riuscivano ad applicare a questa catena di eventi né il 
pathos 
letterario né quello politico abituale. 
E infine, forse l'elemento più importante: la valutazione del 
conflitto alla 
luce dell'11 settembre. Bush ha dichiarato nel suo discorso che senza 
democrazia e riforme difficilmente i palestinesi cesseranno del 
terrore, e 
che al tavolo si tornerà allora. Un'analisi del terrore definitiva, 
che 
subito anche tutta l'Europa ha preso in considerazione; democrazia e 
pace 
sono legate, non lo sapevamo fin dal 1945? D'un tratto tutti se lo 
sono 
ricordato. Poco dopo, venerdì 26, John Negroponte, ambasciatore 
americano 
all'Onu, ha detto che la sfilza mareale di condanne unilaterali è 
finita. 
Israele si può condannare, certo, ma solo con una premessa che 
condanni 
anche gli attacchi terroristici di Hamas, Brigate di Al Aqsa (ovvero, 
Fatah), Jihad islamica. Questa svolta ha un carattere conoscitivo 
ancor 
prima che politico; e il giornalismo, per quanto romantico e freedom 
fighter, è ontologicamente conoscitivo, e in fondo lo sa. Infine, 
l'errore 
di Jenin e di Betlemme, dove non solo non c'era massacro (nel primo 
caso) né 
premeditazione israeliana contro la Chiesa, ma solo guerra aperta 
contro un 
duro, preparatissimo nucleo di battaglia palestinese, ha mescolato 
lupi e 
agnelli. Così ora, noi giornalisti, li cominciamo a osservare, senza 
cercare 
disperatamente di trasformare gli uni negli altri, con bella 
scrittura. 
            