Mentre si aspetta la visita del Papa, in Israele è aperta la corsa al recupero della dimensione cristiana Gesù conteso fra ebrei e palest inesi
sabato 18 marzo 2000 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
QUELLE grandi pietre, bianche, rettangolari che lastricano la strada
adiacente al Muro del Pianto, chissà quante volte, mentre - come ogni
buon
ebreo - andava al Tempio, Gesù le ha calpestate. Vera pietra di
Gerusalemme,
vero corpo di Cristo. La via Dolorosa che Cristo percorse nella sua
Passione, fino al Golgota e al Sepolcro, il pellegrino piange
percorrendola:
sente nell'aria vero sangue, sudore, lacrime. E quest'acqua del
Giordano che
scorre su un fondo sabbioso e granuloso strappato al deserto è quella
che
Giovanni usò per battezzare Gesù bagnandogli i lunghi capelli di
trentenne
scarmigliato, combattente.
Quando il Papa vedrà Gerusalemme, quando visiterà Israele, la figura
fisica
di Gesù sarà più visibile di quanto non lo sia mai stata; sarà un
film in
cinemascope 24 ore su 24 per una settimana. Non c'è niente di più
convincente della fisicità . La fede, ovvero credere, si lega al
vedere, al
toccare: se non vedo, non credo. Il Papa che nella fede in quanto
tale ha la
sua ragione e il suo scopo, viene in Terrasanta a dire: « Ecco,
vedete, in
conclusione della mia missione vi dico: Gesù Cristo è nato qui, è
stato qui,
ha bevuto quest'acqua e ha mangiato questi frutti, sofferto su questa
croce,
qui è risorto. E' vero» . Celebrando le proprie emozioni di pellegrino
il
Papa mostra la figura di Gesù vivo: essa diventa tridimensionale
davanti
alle botteghe (ancora esistono) da cui cacciò i mercanti, sul Monte
degli
Ulivi, corposi, nodosi veri alberi cui manca solo la parola per
completare
la narrazione del Vangelo: diventa infanzia e allegria a Nazaret se
si
scende nella piccola Chiesa dove sgorga la fonte d'acqua potabile che
Maria
veniva a prendere con la giara. Cristo vivo ripropone i suoi valori
molto
più di un Cristo icona.
Ma questa fisicità così forte impone un radicamento mai visto prima
di Gesù
nel suo proprio mondo, quello ebraico. Propone l'ennesimo confronto
che
stavolta è un autentico corpo a corpo. Il Papa viene nel paese degli
ebrei,
a trovare un Gesù ebreo, e in ogni atto che di lui ricorderà , per
esempio
l'Ultima Cena che altro non è che il Seder di Pesach ovvero la grande
cena
rituale che gli ebrei tengono a ogni Pasqua, rispunterà fuori il tema
ebraico.
Però in Terrasanta c'è l'ebraismo, ma anche il mondo palestinese: per
esempio, quando il Papa visiterà la culla di Gesù nella Piazza della
Mangiatoia di Betlemme che sta nell'Autonomia Palestinese, farà
compiere a
Gesù un percorso molto contemporaneo fra ebrei e arabi. E non è
semplice
quanto e a chi Gesù appartenga oggi.
Gli ebrei sanno grosso modo che questo Papa è quello che ha fatto più
di
ogni altro per superare il retaggio delle persecuzioni,
dell'antisemitismo:
ha chiesto scusa, ha visitato gli ebrei in Sinagoga e li ha chiamati
« fratelli maggiori» , ha riconosciuto lo Stato d'Israele, ora in
Gerusalemme
compie una serie di atti senz'altro legittimanti e destinati a
lasciare un
grande segno nella storia. Questo Papa specie in Terrasanta darà
certo segno
della consapevolezza estrema che Gesù era un vero ebreo. Ma gli ebrei
lo
sanno? Non tanto. Solo questa visita del Papa sembra avere
risvegliato
Israele all'ebraismo di Gesù che i religiosi ignorano poiché porta
subito
alla memoria le persecuzioni cristiane e perché temono la conversione
forzata. Benché sia l'ebreo più famoso della storia, Gesù non trova
posto se
non per una laconica citazione nella sesta classe nei libri di testo
per le
scuole: un'inchiesta condotta in una scuola superiore di Bat Yam
mostra che
i ragazzi non sanno dove e quando sia nato, dove e che cosa abbia
predicato,
quando sia morto e come.
Michael Harsegor, un famoso intellettuale autore di un programma
radiofonico
che nelle ultime settimane ha cercato di spiegare il cristianesimo
come
parte integrante dell'ebraismo antico, ritiene finalmente
indispensabile per
gli ebrei capire il cristianesimo e la sua diffusione, e ricordare
che Gesù
ha ripetuto tante volte che niente deve essere cambiato nella Torah,
che la
sua vita era quella di un grande profeta ebreo del suo tempo;
Gerusalemme lo
accolse con sospetto proprio perché era un profeta della Galilea,
ritenuta
una provincia lontana e ignara; i romani lo odiarono insieme ai
farisei
perché con la sua difesa dei poveri e dell'indipendenza nazionale
metteva a
rischio il potere degli occupanti romani e dei loro protetti; il suo
senso
morale era il migliore che un ebreo potesse trarre dai testi. Il
professor
Aviad Kleinberg taccia di « ignoranza, ostilità , conservatorismo e
trascuratezza» la tendenza a ignorare Gesù . E in queste settimane si
è
assistito a una corsa al recupero della dimensione cristiana della
Terrasanta, e in definitiva degli ebrei stessi.
In questo recupero ebraico di Gesù si rilegge il libro di Joseph
Klausner
Gesù l'ebreo, che i giornali recensiscono come se fosse uscito oggi
invece
di ottant'anni fa. Klausner scrive: « Non c'è un'evento della vita di
Gesù né
un verso del suo insegnamento che deroghi dal giudaismo profetico e
normativo dell'ebraismo del tempo del Secondo Tempio» . Sempre in
questa
subitanea saga di Gesù , al Bible Land Museum una mostra di bellissimi
manufatti dei primi secoli dopo Cristo mostra le grandi giare dei
riti di
purificazione ebraica, eguali a quelle di cui parla Giovanni nei
Vangeli
quando racconta il miracolo della trasformazione dell'acqua in vino,
o
persino un tragico chiodo infilato nel polso di un ebreo chiamato
Giovanni
figlio di Hagkol, crocifisso e sepolto al tempo di Gesù a
Gerusalemme. Anche
il Museo d'Israele, il più prestigioso, fa una sua autentica
rivoluzione
culturale con una mostra su tutte le tracce di vita cristiana in
Israele a
partire dai tempi degli Esseni e dei rotoli del Mar Morto. C'è
persino una
ricostruzione del tavolo dell'ultima cena, con autentici piatti e
suppellettili del tempo.
Un cristiano può restare senza fiato, e un ebreo forse ancora di più :
mai è
stato tanto bombardato dal nome di Gesù in termini così positivi. E
ancora:
la Via Dolorosa è stata tutta restaurata dalla Fondazione
Gerusalemme, che
in genere si occupa di opere di carattere sociale, e quindi col suo
intervento restituisce a Cristo un ruolo tutto interno alla città che
Israele usa come vetrina di tutti i suoi simboli; e l'Università
ebraica di
Gerusalemme ha aperto un « Centro per lo Studio della Cristianità » .
Padre
Marcel Dubois, grande decano domenicano degli studi ebraici prevede
« più
rispetto gli uni per gli altri» . « Il numero di persone che entrano in
contatto con l'ebraismo di Gesù si sta allargando» , dice rav David
Rosen,
fondatore del dialogo interreligioso, « ma sarà ancora lungo e
difficile
curare le ferite della storia» .
Ma se gli ebrei si affacciano alla figura di Gesù , da parte
palestinese si è
sollevata una grande ondata di interesse: Arafat ha per così dire
riempito
il tradizionale vuoto ebraico stabilendo una sorta di doppio retaggio
sulla
Terrasanta. Non solo il leader palestinese ripete da anni che la
Palestina
non è solo musulmana ma anche cristiana (anche se i cristiani locali
lamentano un rapporto di sofferenza con i musulmani) ma ha fatto
della messa
di mezzanotte a Betlemme un simbolo nazionale palestinese. Lo sfondo
ideologico dell'idea che la Palestina, vista la reticenza ebraica,
possa
identificarsi con la terra di Gesù , è l’ argomento che ormai Arafat ha
ripetuto più volte: « Gesù fu il primo palestinese» , un'ingegnosa
espressione
che ha la sua origine in quella che negli anni dell'Intifada fu
chiamata « la
teologia della liberazione palestinese» . Il suo testo base, di Naim
Stifan
Ateek, porta il titolo Giustizia e solo giustizia. Con mirabile
fantasia,
Ateek scrisse: « Gesù nacque a Betlemme (...). Morì e fu sepolto a
Gerusalemme. Qui è risorto: quindi, i primi testimoni della sua
resurrezione
furono palestinesi; la Chiesa è nata in Palestina, e i primi
discepoli e
seguaci di Cristo furono palestinesi» .
Dice Merom Benvenisti, guardando al lato politico della faccenda,
dato che
quello teologico è ovviamente inconsistente: « Arafat può apparire,
quando
invita leader, presidenti, capi della Chiesa a Betlemme, come l'unico
capo
affidabile in Terrasanta, il successore della tradizione di
tolleranza del
Califfo Omar» . Ci sono un po' di difficoltà logistiche
nell'appropriazione
di Gesù , perché i palestinesi spesso lo fanno rivendicando di essere
i
successori di Melchizedech capostipite dei caananiti, che il re David
sconfisse quando si appropriò Gerusalemme. E David è il capostipite
della
stirpe di Gesù secondo i Vangeli. Difficile dunque conciliare le due
versioni: resta la dimensione simbolica per cui la crocifissione di
Cristo
ricorda quella del popolo palestinese, e in ambedue, dice a mo' di
prova
Arafat, gli ebrei hanno delle responsabilità .
Insomma, evocando il corpo di Cristo nei suoi luoghi, il Papa lo fa
splendere ma lo espone oltremisura. Chissà se, quando Arafat gli dirà
« Era
un palestinese» , ribadirà con storica chiarezza che era ebreo, anche
se la
causa palestinese gli è molto cara.