Ma stavolta Arafat è in difficoltà Centocinquanta ultrà scarcerati al culmine della crisi
sabato 22 marzo 1997 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV COME sono lontani adesso questi due popoli, quelli, con il
nastro verde e le immagini di Yehie Ayash, l' che faceva
saltare per aria gli autobus israeliani, issate in alto in segno di
gioia; dall'altra parte la donna, chissà che ne è stato di lei, che
ha perduto la scarpa che abbiamo visto, sola, sul terreno di fronte
al bel caffè di Tel Aviv, una scarpa lunga e affusolata,
dal tacco alto, un simbolo di benessere e di vita sofisticata; e il
giovane cameriere che non può smettere di piangere, tutto vestito
elegante, i capelli scarmigliati, accosciato per terra mentre diceva:
pubblica mondiale, Har Homa non è affatto una parte di quella che si
chiama Est Gerusalemme, cioè la zona araba della capitale, ma è una
periferia a Sud. Una periferia che fu già lottizzata vent'anni fa e
più dal sindaco laborista Teddy Collet. Anche se tutto questo è
vero, pure Netanyahu, vista la delicatezza del processo di pace,
vista la difficoltà a costruire la fiducia fra le parti da quando il
suo governo è in carica, avrebbe dovuto certamente trovare un
accordo con Arafat prima di mettere in moto le ruspe. Ha sbagliato,
probabilmente seguita a sbagliare. Ma è incomparabile il suo errore
con il sangue innocente versato ieri nel centro di Tel Aviv. E
questo, nessuno dev'essere così cieco da non capirlo. Forse non è
vero, come dice Netanyahu, che Arafat ha dato la luce verde ai
terroristi di Hamas e della Jihad islamica. Certo non gliel'ha data
in modo diretto, non in senso tecnico. È pur vero, d'altra parte,
che senza esitare un attimo, dopo che Netanyahu gli aveva lasciato in
mano Hevron, dopo che il primo ministro israeliano aveva ottenuto il
voto per l'accordo di Oslo dal suo Parlamento, 87 voti a 17, dopo che
aveva concordato con gli americani un primo (sia pur piccolo) ritiro
dalle zone B e C, dopo che aveva ammesso per la prima volta la
possibilità dell'esistenza di uno Stato Palestinese, dopo che aveva
fatto la proposta di trattare l'insieme dello stato definitivo dei
rapporti tra ebrei e palestinesi compresa Gerusalemme, sulla
questione di Har Homa Arafat ha voluto tuttavia mettere in piedi una
contesa definitiva, questionando duramente la stessa disponibilità
di Netanyahu e del suo governo all'intero processo di pace. E tutto
ciò mentre liberava, pochi giorni or sono, lanciando in ogni
direzione anatemi pesantissimi, maledizioni, appelli al mondo intero
perché corresse in suo soccorso, ben 150 estremisti, fra uomini di
Hamas e della Jihad islamica che erano nelle sue carceri. Tra di
loro, ben 25 membri di Azzdym Al Hassam, la parte armata e terrorista
di Hamas. Cosa pensava, che una volta liberati dalla prigione si
sarebbero presi una vacanza? Arafat ha avuto tutto il tempo dalla sua
- come sempre - i mezzi di comunicazione di massa. Har Homa
inopinatamente è diventato il simbolo stesso della mera presenza
palestinese a Gerusalemme; chissà perché questo è accaduto. E d'un
tratto, all'orizzonte è svanito il fine politico che Arafat sa
essere, il partner di Clinton e di tutti i leader mondiali nel
processo di pace, per lasciar posto a un leader più che altro
preoccupato, sembrerebbe, dei suoi problemi interni, della sua forza
con la parte estremista, e più ancora come posseduto da reazioni
automatiche, da parole e sentimenti difficilmente comprensibili.
Perché , che cosa può accadere adesso? Netanyahu non è Peres, e non
è neppure Rabin, che agli attentati rispondevano invariabilmente
dicendo . Netanyahu, e Arafat lo sa
benissimo, gli lancia questo messaggio:
trattenere i terroristi. Sappi, che sinché c'è il terrore non ci
saranno colloqui di pace. Dunque, che cosa si aspetta Arafat? Anche
se c'è chi ripete che buona parte della responsabilità resta nelle
mani degli israeliani stessi, che non hanno saputo rinunciare a
costruire su quella collina, in generale è difficile che il consesso
internazionale stavolta raccolga unicamente la percezione palestinese
di quello che è accaduto. Un attentato come quello di ieri di fatto
pone più che altro domande ad Arafat, e oltre che a lui
direttamente, al suo popolo. Ed è la domanda stessa che è stata
tante volte rivolta a Netanyahu: nel fondo della vostra anima,
credete veramente nel processo di pace? O invece, volete solamente
distruggere gli accordi di Oslo? Fiamma Nirenstein