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LO SCOGLIO CHE NON SI RIESCE AD AGGIRARE La capitale di due popoli che non vogliono cedere

giovedì 20 luglio 2000 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME E’ difficile, è difficile, è difficile» ha mormorato Arafat, che quando davvero vuole sottolinerare qualcosa la ripete tre volte. « E' più difficile di quando ero sotto le bombe a Beirut» . Un fallimento dell'incontro di Camp David, è un fallimento per tutto il mondo: riguarda non solo l'oggi ma anche i decenni a venire perché invece di placare aumenta l'odio mediorentale, apre nuovi conflitti con altri morti giovani, altre famiglie distrutte, riguarda tutti perché fomenta l'antagonismo islamico nei confronti del mondo occidentale, riapre la domanda sull'accettazione da parte araba dello Stato d'Israele, e sulla diponibilità di Israele a richieste palestinesi basilari per Arafat, impossibili per un leader come Ehud Barak, che è tuttavia il più disponibile che gli arabi possano desiderare. Nel preparare le valige ieri Barak si è lasciato scappare soltanto che « Arafat non è un vero partner per la Pace» ovvero che discute solo per motivi di facciata e di rapporti con gli USA, sapendo già dall'inizio che l'ultima parola è un « no» . Ovvero, si tratterebbe del famoso « rifiuto arabo» pregiudiziale di cui tanto si è discusso negli anni '70 e '80. Arafat certamente è sottoposto in questi giorni a una pressione mai provata prima: per proclamare in pace lo Stato il prossimo settembre, ovvero per festeggiare con il raggiungimento del suo scopo proclamato il settantunesimo compleanno (ad agosto) deve arrivare oggi a una conclusione; d'altra parte una quantità di motivi psicologici, fra cui la paura di essere preso per un leader anziano e debole, e politici lo bloccano. E sullo sfondo, c'è la storia di un'inconciliabilità basilare. La risposta di uno dei suoi ministri, Sofian Abu Ziad, è molto semplice: « La verità è che anche Arafat, come Barak, ha dei limiti prestabiliti che non può oltrepassare: 250 milioni di arabi guardano a Gerusalemme come alla futura capitale dello Stato palestinese, e tutto il mondo mussulmano, forse un miliardo di persone, come a un luogo dell'anima assolutamente irrinunciabile. Che deve fare Arafat allora di fronte alla proposta di rinunciare completamente alla sovranità sulla Città Santa? Può deludere un mondo intero, il suo mondo?» Ma la risposta degli israeliani è che Gerusalemme sin dagli inizi dei negoziati è stata dichiarata indivisibile, e che proprio per compensare Arafat, Barak ha fatto concessioni enormi circa la sovranità sui villaggi limitrofi, la gestione amministrativa, l'accesso alle Moschee, che si trovano dopotutto sopra le rovine del Secondo Tempio. Che comunque al tempo della sovranità giordana la città era una tragica Berlino in cui i non mussulmani non avevano libertà religiosa, e che Arafat ha avuto in cambio tanto West Bank, strade, poteri, aperture sui profughi e altre concessioni, da potere di fronte alla sua opinione pubblica tornare a casa orgoglioso. E che comunque, di fronte a un inevitabile referendum Barak non riuscirebbe mai a far passare di più di quello che offre oggi al rais. Arafat ha certamente delle difficoltà generali a scendere dalla alta montagna di Gerusalemme, che egli stesso denominò « capitale del futuro Stato Palestinese» che è ora alle porte. Ma ci sono anche problemi relativi alla pace stessa con gli Israeliani: l'opposizione è molto forte nell'Autonomia Palestinese e nel mondo arabo, che, per esempio nel caso dell'Egitto, teme la forza egemonica, specie economica, che verrebbe a Israele da una pace complessiva nell'area. Arafat non voleva il summit, proprio perché sapeva di andare con le mani legate, un leader debole di fronte a decisioni fatali. Diversi membri della delegazione palestinese da Camp David, come Mohammed Dahlan, l'uomo forte della Sicurezza, sono in contatto costante con Gaza e con la West Bank da dove gli riferiscono che l'opinione piubblica non si fida, suggerisce di non fare concessioni, si dichiara pronta a sacrificare la vita. Cento intellettuali palestinesi hanno firmato una petizione in cui più che chiedere intimano ad Arafat di non superare la « linea rossa» fissata dal Consiglio Centrale dell'Olp, e anzi gli dicono chiaramente: « Se le oltrepassi, meglio che non torni a casa» . Una delegazione di controllo, che però non è stata ricevuta, ha cercato in tutti i modi di vistare Arafat per chiedergli di tenere testa a Israele. Nella West Bank il suo portavoce, incaricato di organizzargli una dimostrazione di sostegno, si è trovato invece a fare i conti con una quantità di avvertimenti aggressivi, con dei sondaggi che danno la fiducia ad Arafat a poche frazioni sopra il 50 per cento, e al fiorire di attività paramilitari fra i giovani palestinesi a Gaza. Come nota l'esperto di affari arabi Dany Rubinstein, già una volta Arafat ha ceduto alla spinta dell'opinione pubblica che vorrebbe farla finita con Israele: quando decise, nonostante sapesse che era un tragico errore, di sostenere Saddam Hussein nel 1990. Non osò dire di no alla pressione del pubblico, temette di essere rovesciato da una massa che non accetta che la pace sia tanto costosa.

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