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Lo choc per i 73 soldati uccisi non dal nemico ma dal destino. Israele, il lutto senza perché

giovedì 6 febbraio 1997 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV PER ogni altro Paese del mondo, un disastro come quello occorso nel cielo fra Israele e Libano sarebbe oggetto di dolore, di disperazione, di ansiosa inchiesta. Per Israele, le cose non stanno così : 73 ragazzi, e per di più soldati uccisi in un incidente dell'aviazione militare sono una sfida filosofica alla sua stessa esistenza. E non soltanto perché è enorme la risonanza concentrica del dolore in un Paese piccolo come questo, dove a ogni famiglia colpita corrisponde o per esperienza diretta o per contiguità almeno un'altra esperienza di terribile lutto, o fra i familiari stessi, o fra gli amici. Quello che nella giornata della disperazione seguita alla notte dell'orrore è accaduto, è stata una vera perdita di sé , un grande senso di smarrimento, inteso nel suo proprio significato: Israele per un momento ha perduto la via. Israele è uno Stato nato per essere il rifugio e la salvaguardia degli ebrei, per esserne il baluardo contro la morte. Proprio così : è nato perché non si perpetuasse l'ecatombe etnico-culturale-religiosa, di cui la shoah fu solo l'ultima e massima espressione. Ogni volta che il lutto la investe, è una sfida al suo stesso significato. Però , se un soldato cade in guerra, se i terroristi fanno saltare un autobus, se cioè si intravede sullo sfondo della morte la sagoma del nemico, allora quel nemico può essere sempre battuto, o nella migliore delle ipotesi un giorno ci si potrà fare la pace. Ma se le vite in un contesto fatalmente conflittuale come quello dello scenario libanese vengono rapite in un incidente, gettate per così dire al vento senza potere di questo accusare nessun altro che se stessi, il proprio fato, la propria storia, allora accade quello che sta accadendo in queste terribili ore in Israele. Una domanda sul proprio stesso significato. Oltre che dal dolore anche da questo viene la tensione spasmodica in cui sono stati seppelliti tutti questi ragazzi, nel Paese dove i padri seppelliscono i figli. Tutti gli uomini politici, Netanyahu, il presidente Ezer Weizman, i leader dell'opposizione e quelli del Likud, i rabbini, i giornalisti, gli alunni delle scuole, i telespettatori, i radioascoltatori, tutti i cittadini dal momento dell'incidente non hanno fatto che parlare, parlare senza sosta, in un immenso rito di elaborazione del lutto che non riesce a compiersi, interrogandosi a vicenda sull'accaduto, invitandosi fraternamente a sopportare, a cercare di fare l'unico gesto che si può ancora fare per un morto, e tanto più per un morto ebreo: identificare, identificarne il nome, la storia, il volto, i tratti del carattere, raccontarlo come mai non furono raccontati gli ebrei uccisi fino alla fine della seconda guerra mondiale. E sperare così , rendendo preziosa la voce che parla di loro in assenza, che la memoria faccia quel miracolo di sopravvivenza che invece in queste ore appare assai difficile. Perché quando hai perso un ragazzo di 18 anni lo vuoi semplicemente toccare, vuoi vederlo. Semplicemente, ti manca. I grandi elicotteri da trasporto come i due che sono precipitati, in genere non venivano utilizzati per portare i soldati al loro campo in Libano; martedì notte questo è avvenuto perché l'esercito aveva ritenuto ormai troppo pericoloso il trasporto in camion e in mezzi cingolati, obiettivi ormai familiari al fuoco degli hezbollah. E così in queste ore i mujaiddin festeggiano e ringraziano Allah che secondo loro in un minuto ha fatto fuori quanti loro non ne avevano fatti fuori in un anno. Si dice in queste ore in Israele che per salvare loro la vita, li si è mandati a morire. Che atroce parabola: non una battaglia all'ultimo sangue col nemico è stato il motivo della loro perdita, ma la buona volontà del vertice militare di salvare loro la vita. Il dibattito sulla pace con la Siria e quindi anche sul Libano negli ultimi giorni era stato molto cocente, anzi, è la più calda delle discussioni, perché sembra che Rabin avesse già praticamente concluso un accordo e che i siriani siano ormai ansiosi di riprenderlo in mano. Uscire o no dal Libano, una parte fondamentale del rapporto con la Siria, resta tuttavia una decisione fatale, importante perché lasciarlo vuol dire lasciare gli hezbollah liberi di organizzare il loro odio pervasivo e senza fine contro Israele; però restare vuol dire pagare ogni giorno prezzi mostruosi in termini di vite di ragazzi che se ne vanno. Prezzi che forse ormai la società ebraica non è più in grado di accettare. E tuttavia, nonostante sia questo il dibattito strisciante e che certo domani riprenderà , perché Israele deve pur vivere e discutere, e trovare risposte che appartengano a questa terra, è vero come ha detto Yehud Barak, l'ex capo di stato maggiore laborista, che oggi non c'è né destra né sinistra, ma ciò che campeggia è solo un immenso punto interrogativo, un senso di dolore infinito e metafisico, mentre uno a uno fra il pianto dei commilitoni e lo strazio delle madri e dei padri tanti ventenni vengono seppelliti. Un punto interrogativo sul significato, sulla storia, sul futuro a cui in Israele i padri, le madri, i soldati, i politici non sanno altro che invitarsi a dare una risposta con la forza del coraggio. Fiamma Nirenstein

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