Fiamma Nirenstein Blog

Le ragioni della mia Aliyah

giovedì 11 luglio 2013 Generico 1 commento

Shalom, 11 luglio 2013

L’ufficiale dell’agenzia ebraica, quando siamo entrati nella piccola stanza al primo piano dove si firma la richiesta di essere accettati come cittadini dello Stato d’Israele, mi ha detto come prima cosa: “Se c’è qualcuno cui vuoi telefonare in Israele, quello è il telefono”. E me ne ha indicato uno vecchio, nero, col filo attaccato al muro. Ancora non esistevano i telefonini quando si è inventato il diritto al ritorno. Quando ci siamo seduti mi ha dato 1200 shekel, circa 250 euro, e io ho sorriso un po’ vergognosa, non me l’aspettavo questo regalo, penso che per molti deve essere essenziale che gli venga messa una piccola somma in mano. Ora, con quei soldi devo aprire un conto in banca, è la regola. Poi sono venuti altri fogli, di questo è fatto il primo passo, moduli di impegno dello Stato verso di te, l’impegno per la mutua, quello per la banca, il documento simile a un passaporto per cui sei un ole hadash, un nuovo cittadino, anzi, uno che è appena “salito”, la teudà zeut col tuo numero, quello che tutti sanno a mente, anche io lo saprò, penso orgogliosa, quel numero che mio marito ripete al telefono quando deve pagare qualcosa, come un mantra... teudà zeut, carta d’identità, questo è davvero israeliano, ora ce l’ho anch’io.

E poi, il funzionario, dopo un po’, ponderatamente, mi ha dato la mano e mi ha finalmente sorriso, ora che aveva espletato uno a uno tutti i suoi doveri. Non dimenticherò la sua aria solenne, niente salamelecchi, senza nessuna retorica, solo una stretta di mano. Sei venuto a lavorare, diceva la sua faccia, hai fatto un passo per cui sorriderai quando te lo meriterai, sei tornato dopo duemila anni, sei venuto a rischiare per goderti la gioia della tua gente, della tua terra.

Non si scherza, nello stile ruvido e fraterno con cui sono stati nel tempo accolti gli immigrati marocchini, iracheni, tunisini, egiziani, etiopi in fuga dalle loro vite profumate di datteri, deliziate dalle passeggiate mattutine alle sinagoghe del Cairo, devastate poi dalla persecuzione e dalla fame. O nello stile in cui sono giunti oiegatoi in due dal viaggio a piedi o in navi scassate e pericolanti polacchi e i russi, in patria inseguiti dai cosacchi e dal suono straziante del violino dello shtetl… e i tedeschi, gli spagnoli, gli italiani, i francesi cresciuti nell’ incongrua storia d’Europa, così alta nelle aspirazioni, così misera nel realizzarle. Ho fatto l’aliyah, adesso essere italiana e israeliana è un tutt’uno. Lo desideravo come un compimento necessario, come un dono a Firenze dove sono nata, come un tributo a Gerusalemme che ne compie l’opera rinascimentale, quella di salvare il mondo dalla miseria umana con l’aspirazione dell’uomo a trascendere la natura per disegnare la storia.

Sono stata accolta come pensavo, in famiglia. Intendo proprio famiglia. Un israeliano lo riconosco da lontano, proprio come un italiano, un fiorentino è parte del mio Dna e così un gerusalemitano. Non è facile da spiegare: è il gesto di un uomo sui sessanta che passa per la strada con una spalla sollevata più in alto dell’altra, il suo lieve impaccio fisico mi ricorda la prepotenza intellettuale di mio padre, così timido e deciso; o al contrario mi sembra parte della famiglia un tipo atletico americano che passa per strada, i cui tratti si sono addolciti e arrotondati e la statura è aumentata in decenni di fuga alla ricerca del benessere e poi è finito qui, nel miluim, a fare la guerra; è la vecchia signora al tempio italiano, che porta i guanti come mia nonna Rosina, che ha visto la shoah e mi porge la guancia da baciare facendomi gli auguri e mi guarda con vero orgoglio, come fossi una sua discendente; è il tassista che vuole sapere quanto guadagno, quanto pago di affitto, quanti figli ho e cosa fa mia marito; e sono i ragazzi, le ragazze, i soldati bellissimi che ai check-point si illuminano se finalmente passando gli fai un saluto normale, sorridendo senza paura, senza tensione; sono i camerieri di Mc Donald e di Cafè Cafit, che strappano ore di lavoro allo studio per far due lire; gli infermieri ebrei e arabi dell’ospedale Hadassa; e le ragazze con le scollature abbondanti, così belle, determinate e semplici anche quando sono sexy; e le ragazze con i vestiti modesti e il fazzoletto in testa che sanno che è una sfida essere ebrei così, e amano sedersi al Beit Cafè con le amiche; sono i bambini che come pulcini in un pollaio corrono in giro in numero spropositato (per un europeo); è la mia famiglia del kibbutz che mi fa domande cretine su Berlusconi e Batia che ricorda che quando era piccola e a Mishmar Hasharon tenevano i bambini separati dai genitori, una volta la spedirono da sola all’ospedale a farsi le tonsille; ed è l’aria fissata con cui la madre sta attaccata al figlio e gli ripete una quantità di insopportabili raccomandazioni inutili, mangia, mettiti il golf, tishmor le atzmechà, riguardati, quando vai a Gaza, o sul confine degli Hezbollah, quello col Libano o con la Siria. Tishmor, ma lo shomer, il guardiano d’Israele, non dorme, è scritto anche nella Bibbia.

Il mio primo giorno di aliyah vado a una conferenza sull’Europa all’università di Bar Ilan, e per due volte suona la sirena aggressiva, un po’ assordante, di un’esercitazione che si svolge in tutta Israele per la popolazione civile. Ci sorridiamo come un po’ imbarazzati, ci fermiamo un momento dal ragionamento, ovunque in Israele stanno portando i bambini delle scuole nei rifugi, succede spesso, molti, quelli di Kiriat Shmone o di Sderot o anche di Haifa sono abituati ad andarci per davvero, gli adulti li guidano comunicando loro sicurezza, scherzano, ridono. Ma lo sanno benissimo che non c’è niente da ridere o da scherzare, che un attacco chimico o un biologico, per carità può essere scritto nel futuro più pessimista, chissà se queste esercitazioni possono aiutare davvero a proteggersene... Tutti lo pensano, e si sorridono un po’ imbarazzati come questa piccola paura di fronte all’immenso rischio che è aria che si respira, cielo azzurro, vento di hamsin, fosse impropria, non autorizzata.
Mi sono ricordata, mentre suonava la sirena e noi continuavamo a discutere di Europa, come durante la guerra del 91 quando Saddam Hussein lanciava i missili anche su Gerusalemme mia sorella Simona e io sedevamo nella sua vasca da bagno con la maschera, anche il cane Dafka aspettava con noi che finisse l’allarme, la porta era chiusa con lo scotch, immaginarsi che grande difesa, bevete acqua diceva la radio, chi mai pensava che se fossimo state centrate quel bagno sarebbe stata un rifugio vero. Ma eravamo allegre. Facevamo quel che si poteva, manifestavamo la nostra determinazione nel seguire tutte istruzioni, e seguitavamo a leggere, a dire stupidaggini da dentro la maschera, e poi quando uscivamo finalmente in cucina prendevamo un tè. Così è Israele giochi un gioco in cui c’è l’abitudine, la sfida, il coraggio, la comunione di intenti, fra cui semplicemente vivere, e restare un Paese come si deve, un paese democratico, sia quel che sia.

Non so se dal punto di vista personale, direi fisico, qui sia meglio o peggio per me, io sono così fortunata che in Italia vivo fra Roma e Firenze, dove sono nata e cresciuta, la mia vita è stata sempre illuminata da immagini meravigliose come la Cupola del Brunelleschi, da Michelangelo, da Donatello... A Roma ho amici che conosco dai tempi dell’inizio della mia carriera giornalistica, gente con cui è bello ragionare e andare a cena, e amo anche la comunità ebraica più antica del mondo che qui ha la sua storia di duemila anni. Ho sognato per cinque anni in Parlamento di dimostrare che difendere Israele è parte stessa del significato di essere italiano, per la parte che ha a che fare con l’impegno preso nel 1945 verso la parità dei diritti delle etnie e delle religioni, delle idee e dei sessi, per la scelta non facile, come si vede bene anche oggi, della Repubblica democratica. Mi pare che molti parlamentari (e dal Parlamento la cosa è arrivata i cittadini) mi pare... l’abbiano capito.

E’ un’illusione? Difficile per me saperlo, le scelte a venire lo diranno. Quello che mi pare chiaro è che per me la scelta di Israele ha un rapporto col prendere cura del senso di vuoto che si è ormai creato in questa Europa in crisi, dove non esiste ormai il senso della solidarietà, dello scopo comune, del destino nelle tue mani, della magica evidenza che la volontà cambia il destino, per quanto difficile questo possa apparire. Basta pensare quale pazzo innamoramento delle regole del diritto abbia mantenuto Israele in democrazia in 65 anni di guerra. La certezza che Israele contenga e comunichi queste possibilità è il mio regalo all’Italia, all’Europa, e la mia scelta di italiana che diventa israeliana.  

Tratto da Shalom

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Francesco Salatino , Francoforte sul Meno/Germania
 giovedì 11 luglio 2013  17:11:08

Shalom Fiamma Nirestein!Mi viene in mente la bellissima frase di Magdi Allam: "ama Israele come te stesso".Purtroppo molti italiani hanno paura di pronunciarla. Mentre i nemici di Israeleagiscono a viso aperto.Mi auguro che , nonostante l'attuale ministra degli esteri filoaraba, i buoni rapporti con Israele siano salvaguardiati.



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