LE OPERAZIONI DI SALVATAGGIO IN TURCHIA PERCHÉ ISRAELE FA MIRACOLI
giovedì 26 agosto 1999 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
PERCHE’ le squadre di soccorso israeliane compiono miracoli nelle
operazioni di salvataggio? Perché in tre giorni, con i volti
sfigurati dallo
sforzo e dall’ emozione più intima, hanno strappato da sotto le
macerie
turche due bambini, quando ogni ragionevole speranza pareva esaurita?
Non è perché sono semplicemente allenati a salvare le vite umane da
un
continuo esercizio tecnico e tragicamente fattuale, ovvero dalle loro
guerre
e dagli attentati. Almeno, non è solo questo.
È qualcos’ altro di molto più basilare che li conduce in aiuto nelle
più
remote parti del mondo - in maniera che appare sempre un po’
paradossale
data la piccolezza del Paese e il volume dei continui problemi che
hanno in
casa - come fosse l’ ultima cosa che devono fare: ogni disastro per
quanto
lontano in Asia, in Africa (ricordate le squadre che scavavano nelle
macerie
dell’ ambasciata americana in Kenya dopo l’ attentato di Bin Laden?) fa
subito
accorrere gli specialisti israeliani che scavano e salvano come si
trattasse
di stretti congiunti. Il loro accanimento è pari a quello con cui si
cerca
ancora Ron Arad, pilota scomparso all’ inizio degli anni 80, forse in
mano
degli iraniani. O a quello con cui si contratta col nemico il
rilascio di
decine di prigionieri in cambio del corpo di un soldato israeliano
ucciso.
Tutto questo fa parte dell’ ideologia di fondazione di Israele, tanto
più
solida quanto più indispensabile al sionismo: senza di essa Israele
perderebbe gran parte del suo significato. L’ idea centrale è che in
ogni
vita umana è racchiuso un mondo; che non si deve mai lasciare nessuno
indietro per nessuna ragione; che ogni uomo ha il suo nome e il suo
corpo, e
che neppure in morte devono andare perduti; che la sua esistenza
comunque è
per così dire indispensabile all’ intero creato. Non si tratta di
un’ idea
sacrale: infatti molte culture e religioni credono al primato della
vita;
anche noi ci crediamo, ma non abbiamo una storia e un’ ideologia di
sostegno
che ci consenta di perseguirla senza tregua. Gli israeliani invece
sanno
dall’ Olocausto l’ annichilimento e la spersonalizzazione e dalle
antiche
persecuzioni la necessità della solidarietà fra gli uomini, ed è
questo
tratto genetico che li spinge a scavare con le unghie fino a ottenere
quello
che la stampa mondiale chiama « miracolo» : un bambino ancora vivo
sollevato
in segno di trionfo della vita verso il cielo.
C’ è in questa passione anche l’ evidente desiderio di ripristinare
l’ immagine
di un Israele antico, che sognava, prima di tante guerre e tanta
violenza
perpetrata da ogni parte, l’ irenica utopia di Theodor Herzl: e tanto
più
dopo l’ Intifada il sogno di poter amare un bambino musulmano come un
proprio
figlio, di poterne salvare la vita invece che inseguirlo nei
Territori,
diventa un momento epico di recupero innanzitutto di sé stessi. Anche
perché
l’ israeliano mostra che non la forza delle armi lo rende efficiente,
ma
ancora la forza imbattibile dell’ ideologia che invece a noi,
purtroppo,
manca in gran parte.