LE CHANCES DELLA PACE A DIECI GIORNI DAL VOTO ISRAELIANO Il vaso di Pandora del Raiss Il leader fatica a controllare le fazioni palestinesi
giovedì 4 gennaio 2001 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
ARAFAT, in definitiva, ha detto di sì o di no a Clinton? Secondo gli
americani la risposta è positiva, ma gli israeliani dicono che i suoi
« ma»
sono tali e tanti, da costituire un « no» di fatto. Lo dicono, ma
forse non
lo pensano fino in fondo: già stanotte nell’ ufficio del primo
ministro si
discuteva se mandare subito a Washington il ministro degli esteri
Shlomo Ben
Ami e si cercava di capire se sia seria l’ intenzione di Bush di
affidare a
Clinton, a partire dal giorno in cui lascerà la Casa Bianca, un
ufficio
speciale per il Medio Oriente. Barak ha parlato con Clinton fino a
tarda
notte per capire come vanno davvero le cose: è molto importante per
lui
adesso mirare giusto, non può scherzare con un’ opinione pubblica
interna
ferita a morte e furiosa per le decine di attentati quotidiani, anche
dentro
la Linea Verde.
Barak ha un pubblico che ormai teme la guerra, e il tono da lui
assunto in
questi giorno ha mostrato di acconciarsi a questo umore: è stato un
tono da
Capo di Stato Maggiore, che annuncia attacchi più duri al nemico, che
denuncia i pericoli di una guerra di tutta l’ area, che cerca in una
parola
di riconquistare in vista del 6 febbraio, giorno delle elezioni, chi
si è
sentito preso in giro dalla promessa di pace con un partner che dice
solo di
no. Oltretutto, nelle scorse ore erano venute alla luce le indagini
dei
servizi segreti che sostengono che gli ultimi attentati, quelli più
terribili, la decimazione della famiglia Kahane, le bombe sugli
autobus di
Tel Aviv e di Natanya sono responsabilità degli uomini del Fatah, e
non di
Hamas.
Adesso, se ricomincia una trattativa, Barak dovrà cambiare tono, e
tornare a
mostrare fiducia nella pace anche se sarà difficile combinare
qualcosa di
importante in solo tre settimane. Ma se Barak può tentare di sterzare
tutto
di nuovo verso la pace, cosa per lui indispensabile, a meno di non
smantellare alla base la sua immagine di politico delle grandi
concessioni,
compresa quelle incluse nel difficile « si» immediato alla proposta
americana
, come funziona, invece, per Arafat? In realtà , dal raggiungimento di
un’ accordo, il raiss avrebbe un vantaggio enorme di fronte alla
storia che
lo incoronerebbe padre dello Stato Palestinese, il primo e l’ unico
che sia
mai esistito, il sogno di un popolo da sempre senza terra. Ma
inanzittutto
Arafat ha visto che le sue richieste, dalla rottura di Camp David,
sono
divenute sempre meglio accette dal consesso internazionale, e hanno
potuto
allargarsi. Lo scontro terribile ha messo sotto il riflettore le
sofferte
aspettative dei palestinesi, le ha rese di nuovo popolari come prima
del
Processo di Pace.
Arafat conta sulla guerra come su uno strumento che lo può portare a
uno
Stato più grande, più solido, più supportato dal mondo. Sempre che
con
l’ avvento di Sharon il giuoco non gli si infranga fra le mani.
Comunque, fra
i suoi c’ è chi dice che fra le sue più profonde convinzioni, vi sia
quella
che uno Stato non si deve ricevere in regalo, ma che è meglio
proclamarlo
come un’ acquisizione tutta soggettiva, in linea con molte rivoluzioni
nazionali e anche con il senso di disprezzo che indurrebbe nel suo
popolo
l’ idea di concordare con gli israeliani un passo così importante.
Arafat
inoltre, e questo è un punto fondamentale, ha condotto tutto lo
scontro
avendo in mente lo stato di terribile frantumazione del suo regime
prima
dell’ Intifada, e con uno stato di controllo border-line di tutte le
fazioni
in movimento, Fatah, i Tanzim, Hamas, Jihad e partiti minori.
Arafat sa che la lotta le tiene insieme dietro di lui, ma che nel
momento in
cui egli decida di dichiarare un cessate il fuoco, si troverà contro
le
grandi folle di Hamas, e Marwan Barghuty, uno dei capi dei Tanzim,
dichiarerà che Arafat è il suo capo, ma che prima di riuscire a
fermare le
forze sul campo occorrerà molto tempo data la rabbia dei palestinesi.
Arafat
in questo momento di grandi pressione internazionale, e anche
nell’ approssimarsi delle elezioni israeliani che potrebbero eleggere
Ariel
Sharon come Primo Ministro potrebbe tentare di nuovo la carta della
trattativa e Barak deve certamente seguirlo.
Ma i palestinesi non è detto che lo facciano, e l’ onda continua degli
attentati non ha precedenti, non quanto a numero di morti (nel 95 era
peggio), quanto al ritmo e alla diffusione geografica che sta per
sommergere
ogni sogno di pace. Il mondo arabo, che dall’ Egitto all’ Iraq cerca di
tenere
buoni i suoi estremisti soffiando sul fuoco palestinese, oggi, giorno
del
summit arabo del Cairo, rischia di essere a sua volta una doccia
gelida
sulla fiammella che potrebbe essersi appena accesa.