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La tranquillità d'Israele nonostante l'inferno sia alle porte

domenica 1 settembre 2013 Generico 0 commenti
Shalom, settembre 2013

Quando si parla di guerra, in Israele, non si roteano gli occhi, non si lanciano esclamazioni di orrore, non si dice speriamo bene, non si alzano le sopracciglia. Il Paese si stropiccia gli occhi, sospira un po’, fa due scherzi ai bambini, si alza lentamente da un letto da campo in mezzo a una zona impervia dove dormire è stato un privilegio e si è grati di questo riposo, si guarda intorno e si sciacqua la faccia. Ha cercato di prendere fiato, di riposare per una mezzoretta, l’intervallo è finito, e adesso guarda la vita con senso pratico. Si gira intorno, si tira su le maniche.
A Nordest la Siria: un dittatore dall’apparenza ingannevole, col suo lungo collo da inglese, fa stragi di bambini col gas e bombarda i villaggi dall’aria mentre dall’altra parte una schiera inconsulta di martiri jihadisti oltre a odiare Assad si trova d’accordo con lui solo nel maledire Israele (benché alcuni dei suoi feriti vengano raccolti e curati negli ospedali dello Stato Ebraico) e tutto il mondo occidentale. Poco più su, in Libano, ecco l’ inverosimile massa di giovani agli ordini di un clerico sciita il cui cervello ribolle d’odio sotto il turbante nero, Hassan Nasrallah, che emerge come un serpente dal suo bunker solo per spedire i miliziani a uccidere altri giovani musulmani in Siria con le loro donne, e i loro bambini e per promettere a chi se lo fosse dimenticato che il vero scopo è distruggere Israele.
 
Anche loro sono certi che il califfato mondiale cancellerà Israele. Se si procede verso il nord ovest due mastodonti che ormai sono entrati, come iceberg alla deriva, in rotta di collisione, la Turchia e l’Iran, partecipano della catastrofica impresa della guerra sunnita e di quella sciita, ognuno punta all’egemonia assoluta del Medio Oriente e a essere il leader della rivincita islamica, ma soprattutto ciascuno è imbevuto di leggende antisemite, che nel caso Iraniano fanno ruotare più veloci le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Attaccati a Israele, in un piccolo guscio carico di astio che trova ogni giorno nuove parole di rottura inguaribile, i palestinesi. Quelli di Abu Mazen, subdoli e segretamente decisi a non giungere mai alla promessa soluzione di due stati per due popoli, al momento sembrano maggiormente malleabili alle esigenze americane e dei media che li vogliono “moderati”. Però a Gaza li compensa nell’odio senza quartiere Hamas, in armi come l’Iran, in armi come la Fratellanza Musulmana, a seconda che la distruzione d’Israele sia all’ordine del giorno di questo o di quello. E là vicino, Tzahal combatte con gli egiziani i suoi nemici di oggi, Fratelli Musulmani e beduini messaggeri di Al Qaeda che invadono le sue vicinanze, il Sinai, ma sa che l’anima profonda faraonica del Paese delle piramidi sogna di spazzare via il piccolo astuto nemico che l’ha battuto così festosamente nel ‘67, e poi sempre. Più lontano, altri Paesi islamici, come il Sudan o la Libia, vedono anch’essi l’esistenza di Israele come un peccato davanti a Dio. Dal Sudan sono passati teorie di camion di armi di fabbricazione iraniana dirette verso gli hezbollah tramite la Siria, verso il centro del progetto della distruzione di Israele, velleitaria e primitiva, sempre sconfitto e quindi sempre più astioso.

Assad e anche l’Iran e gli Hezbollah hanno promesso a Israele di essere il primo obiettivo quando Obama colpirà. Le minacce si sono susseguite sempre eguali: se ci colpite, colpiremo Tel Aviv. Obama ha un bel dire che sarà un attacco breve, circoscritto, che non intende spodestare Assad ma solo punirlo perché ha superato la linea rossa delle armi di distruzione di massa (e ha ragione, sia ben chiaro!). Assad contempla di certo, nelle ore dell’attesa, l’ipotesi di trascinare con se Sansone e tutti i Filistei, di essere il Balilla (di cui lui non conosce l’esistenza) che grida “Che l’inse” e lancia la pietra che tutti sognano di gettare a Israele morendo gloriosamente, o salvandosi sull’onda dell’entusiasmo arabo. Non è molto importante chi ha gettato nello scontro Assad-ribelli il gas nervino. Probabilmente tutti e due. Adesso se qualcuno non glielo toglie di mano, esso potrebbe essere lanciato contro Tel Aviv, anche se a una mente razionale questo sembra poco probabile. Perché è vero: se Assad facesse una mossa del genere, avrebbe firmato la sua fine. Ma anche quando ha gettato sui suoi concittadini, per il 40 per cento bambini, il gas nervino, ha compiuto un gesto irrazionale, di cui non aveva bisogno, dettato solo da odio e confusione mentale. Israele ha sempre avuto nemici pieni di odio e di confusione mentale, è per questo che li ha sconfitti sempre, perché non odia e ha la mente chiara. Però sa bene quanto è pericoloso quella sua piccola casa in Medio Oriente.

Dunque, lavora silenzioso, mentre nessuno, proprio nessuno della coalizione di Obama gli lancia una parola di rassicurazione. Per Israele in questi giorni prepararsi alla guerra non vuol dire esclamare, o preoccuparsi, o angosciarsi, o chiedere… vuol dire lavorare duro da solo e stare tranquillo. Vuol dire togliere le coperte incerate ai cannoni, ai carri armati, fare i test gli aerei, distribuire le maschere che purtroppo sono solo il 60 per cento del fabbisogno, ripulire i rifugi, metterci dentro un po’ d’acqua e la radiolina. Vuol dire contare su Tzahal, sull’esperienza e il magnifico avanzamento tecnico dell’esercito, ma soprattutto su quei ragazzini di 18 anni che sperano tutti che la guerra non gli rovini la hufshaà di shabbat, e per il resto, di essere abbastanza bravi da salvare ancora una volta il piccolo Paese che solo, fronteggia il terremoto Medio Orientale. Quel paese sa che “guerra” non è una parolaccia, ma una necessità indesiderata, un evento della vita. Una buona vita, in un Paese democratico determinato a scegliere la cultura e il buon senso in una zona dove la follia estremista è sovrana. Prepariamoci, se sarà necessario, a sostenere ancora una volta la vita.

Tratto da Shalom




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