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La strage del pane mette Assad all'angolo

lunedì 24 dicembre 2012 Il Giornale 1 commento
Il Giornale, 24 dicembre 2012

È impossibile abituarsi alle stragi in Siria, 43mila morti in undici mesi. E quella di ieri, che avviene nella provincia di Hama, a Halfaya, proprio nei giorni in cui il mondo ama raffi­gurarsi come propenso alla bontà e destinato alla pace, de­sta un orrore intollerabile, che non può restare senza risposte. Le immagini che ci è toccato vedere ieri, risultano ancora più inguardabili del solito. Mil­le persone in fila davanti al ne­gozio più essenziale nella sto­ria umana, la panetteria, sono state assalite premeditatamen­te dal fu­oco di Assad e fatte a pez­zi almeno in trecento. Erano ci­vili, donne e bambini, e anche chi è giustamente preoccupato della successione ad Assad dal­la presenza nelle forze ribelli in maggioranza della Fratellanza Musulmana, salafiti e anche uomini di Al Qaida, non può non capire che Assad non può più restare al potere secondo ogni criterio di decenza e di le­galità internazionale. Hama ol­tretutto è la mitica ferita che fu già aperta dal padre di Bashar, Hafez al Assad, che vi compì una strage gigantesca, c’è chi di­ce 10mila persone, chi parla di 40mila. Anche allora le vittime erano cittadini sunniti, sempre nemici del potere alawita af­fiancato dagli sciiti.

La strage ha riempito ieri, co­me allora, le strade di corpi di donne e bambini e di pezzi di corpi umani, di cadaveri e di fe­riti che fuggivano come poteva­no urlando di dolore. La diffu­sione delle immagini su inter­net ha reso ancora più brucian­te l’urgenza per il mondo di in­tervenire per sanare la ferita si­riana. E in realtà le cose sembra siano in movimento.
Un segnale viene da Israele che aveva tenuto le bocche cu­cite fino a ieri, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu improvvisamente ha squader­nato, dopo la riunione di gabi­netto, un paio di frasi asciutte molto meditate. In Siria sta per succedere qualcosa di definiti­vo, ha in sostanza detto, stiamo collaborando con gli Usa e la co­munità internazionale per prendere le misure necessarie. Cosa significa questa presa di posizione? Di quanto tempo di­spone il mondo prima di questi cambiamenti?

Per saperlo dobbiamo osser­vare da lontano una scena che tutti negheranno, ma di cui or­mai si parla quasi apertamen­te: si svolge nella località di al Safira, vicino ad Aleppo, dove pare fossero accumulate le ar­mi chimiche e biologiche di As­sad. I ribelli, dicono fonti incon­trollate, stavano per entrarne in possesso nonostante i bom­bardamenti di Assad e i missili scud, quando sarebbe interve­nuta una forza aggressiva, deci­sa, misteriosa, i cui connotati sarebbero custoditi gelosa­mente da Mosca, Washington, Gerusalemme e Damasco stes­sa. Essa si sarebbe interposta fra i ribelli e le forze di Assad e avrebbe imposto: «Queste ar­mi non le tocca più nessuno». Sarebbe così stata tolta di mez­zo, sottraendo alla guerra alme­no una parte delle armi chimi­che, una delle maggiori ragioni di un’eventuale entrata diret­ta, come ha promesso Obama, delle forze occidentali.

Resta così adesso una dura di­plomazia fatta di spintoni e di una strada che avanza in un ma­re di sangue fra due forze terri­bili e difficilmente affidabili quanto a promesse e a caratte­ri, quella feroce e assassina di Assad e quella islamista estre­ma dei ribelli. Così Lakhdar Brahimi, l’inviato speciale del­l’Onu per la Siria, va a trovare Assad dopo una visita a Mosca, che l’ha istruito per la sua par­te. Mosca, che pure non vuole perdere la sua posizione nel­l’area, è apparsa assai più cede­vole in questi giorni, nonostan­te l­e contradditorie affermazio­ni dei leader, fra cui ultimo il mi­nistro degli Esteri Sergei La­vrov che ha detto una frase sibil­lina: «Nessuna delle due parti può vincere». Fino a poco tem­po fa, i russi avrebbero scom­messo solo sulla vittoria di As­sad e così anche l’Iran, che a sua volta fa qualche passo in­dietro.

Per Assad ormai ci pos­siamo figurare tre scenari, tutti perdenti: il raìs con le spalle al mare di Latakia circondato dai suoi alawiti armati, mentre la Siria si spezza in tre Stati: il suo (quello alawita), quello sunni­ta dei ribelli e quello curdo; se­condo scenario: Bashar Assad in fuga, mettiamo, nel Dubai con la moglie scapigliata nel do­lore e con i soldi in qualche ban­ca locale; oppure, infine, Bashar Assad che finisce in un lago di orrore come Gheddafi. La prima ipotesi sembra per ora piuttosto realistica, e sareb­be suffragata dal fatto che il buon alleato di Assad, Ahmed Ji­bril, fuggito dalla sua residenza nel campo di Yarmouk, bom­bardato da Assad quando i ri­belli sunniti lo hanno occupa­to, avrebbe trovato rifugio a Tar­tous, il porto delle navi russe e che fa parte della zona del go­vernatorato di Latakia, la zona alawita protetta dai russi. Gli americani avrebbero ovvia­mente maggiore responsabili­tà sulla zona in cui si esercite­rebbe il potere dei ribelli. Ne­tanyahu di questo parlava, pro­babilmente: della necessità di prepararsi, coordinandosi a Usa e Russia, a una Siria spezza­ta, armata, strappata fra forze diverse. 

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Dario Maggiulli , Fiumicino
 martedì 25 dicembre 2012  19:59:59

Non è possibile commentare politicamente quanto sta avvenendo in Siria. La lunga cerniera di sangue del NordAfrica, è mozzafiato. Mi fa essere claustrofobico. Atroce, Atroce, Atroce



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