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LA STORIA L’ ebreo che salva i palestinesi

martedì 16 febbraio 1993 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME COM’ È fatto un santo? È alto, massiccio e lento. Gli hanno ucciso il figlio e lui dedica la vita al riscatto dei suoi virtuali assassini e delle loro famiglie. Si muove su una macchina scassata nel teatro tragico del Medio Oriente fra il Moshav Ben Ami (una specie di kibbutz semiprivatizzato nel Nord d’ Israele) e Yenin, un paese sgarrupato e insanguinato dei territori occupati nella zona di Shomron, ovvero la Samaria. Il suo nome è Benny Gefen, figlio in tutto della storia profetica e pionieristica del suo popolo. L’ ultima delle sue molte imprese: ha salvato dal carcere Lamiah Yaber, un palestinese di 26 anni accusato di aver pugnalato a morte uno di quei poveri disgraziati che, una volta tacciati di collaborazionismo, hanno la sorte segnata dai loro simili. L’ ha salvato compiendo il suo lavoro di osservatore ai processi dei tribunali militari nei territori occupati. paralizzato a una mano e una gamba. La prima volta che l’ ho visto in tribunale il suo aspetto era penoso. Lamentava di aver subito violenze dai soldati, ma io questo non ho potuto verificarlo. Però ho avuto l’ immediata consapevolezza che se fosse rimasto in carcere, la sua vita sarebbe finita, la sua paralisi destinata a estendersi. Ho trovato un avvocato israeliano che mi ha aiutato a tirarlo fuori, dato che le prove a suo carico sono del tutto incerte. La garanzia da pagare era di cinquemila shekel (sono circa due milioni e mezzo di lire, n. d. r. ). Certo, glieli ho dati io. Certo, me li renderà . Viene a tutte le sessioni del processo con regolarità , è puntuale a farsi trovare alle verifiche di polizia Certi dottori hanno trovato che la paralisi ha motivi fondamentalmente nervosi, e quindi la si potrà combattere. Un medico di Nazareth lo segue con regolarità . Sono sicuro che quest ’ uomo non tirerà mai più un sasso contro di noi, che i suoi amici hanno smesso di odiare gli israeliani con la stessa perfetta convinzione di prima. Oggi certamente ci vedono con occhi più umani. Eppoi, per noi questa è l’ unica via di salvezza. Siamo quattro milioni di ebrei fra centinaia di milioni di musulmani. E siamo sempre più stanchi, perché anche se facciamo i duri, non siamo fatti che di carne e ossa, e dal ‘ 48 troppe sono state le guerre, troppi sono stati i ragazzi uccisi. Benny Gefen ha 66 anni e gliene daresti 55, grazie anche a un paio d’ occhi fosforescenti, che la famiglia russo polacca emigrata negli Anni Dieci gli ha regalato; e grazie al suo golfino da ragazzo fatto a mano, e ristretto a furia di lavaggi. Nei territori occupati corre questa voce: che si aggira tutto il giorno in mezzo a grappoli di familiari palestinesi piangenti, furiosi, e anche pericolosi. di minaccia sono molte, da parte di estremisti sia arabi sia ebrei. Anche venire qui da solo ogni giorno, tornando a sera, non è certo la cosa più semplice. Le pietre le tirano anche a me. Ma ci sono solo io che vengo a trovare questi esseri umani. Il figlio di Benny si chiamava Eliav, era nato nel 1955, il secondo di tre. Nel 1975 a notte fonda, Eliav faceva la guardia al kibbutz Hanita, dove i terroristi avevano già cercato di penetrare per portare un attentato alla casa dei bambini. Si nascosero nei cespugli. Erano tre ragazzi di 18 anni: Chiunque sia stato è colpevole sia della morte di mio figlio sia di quella dei tre ragazzini. Essi infatti furono uccisi nello scontro a fuoco che seguì l’ attentato. E anche i nostri governanti e generali, io li ritengo responsabili almeno in parte delle morti di troppi nostri ragazzi. Con quali responsabilità li condanniamo al pericolo e alla guerra continua? Qualunque situazione, qualsiasi tipo di pace otterremo, sarà meglio di questa agonia di guerra. Benny Gefen è un kibbutzik pacifista e un figlio dell’ Israele primigenia, socialista (ma non comunista, come ama sottolineare) e guerriera alla maniera del palmach, la prima formazione militare di difesa ebraica nell’ insediamento dell’ allora Protettorato Britannico. con le loro mani, e ne fecero un paradiso. Ma molti fra i loro compagni morirono di malaria e per gli attacchi degli arabi. Negli anni immediatamente prima della fondazione dello Stato ebraico Benny viene in Italia con il palmach ad accogliere gli scampati dai campi di sterminio e ad avviarli sulle navi carretta che partivano dai pressi di Genova verso il nuovo focolare ebraico. Più di tutto dell’ Italia mi stupiva e mi riempiva di domande la copresenza di un passato fascista, bellicoso insieme alla beltà del paesaggio e alla grazia di un popolo così pacifico, accomodante e gentile. Quando i reduci dai campi di concentramento raccontavano l’ orrore patito Benny Gefen, come gli altri militari, faceva la faccia dura del pioniere soldato: cominciavo a capire che nessun uomo ha diritto di portare violenza a un altro essere umano. La fine di mio figlio è stata un tragico completamento dell’ esperienza iniziata in Italia e poi proseguita quando con la guerra del ‘ 48 abbiamo rischiato di essere tutti quanti spazzati via. Il mio kibbutz sul Mar Morto, Beit Arava, si trovava in un’ area conquistata dai giordani, e io migrai nel kibbutz Kabri, nella Galilea Occidentale. Nel ‘ 55 sono entrato nei paracadutisti e per tutti gli anni a venire ho seguitato a vedere sangue e ancora sangue. La mia vita è stata una finestra affacciata su troppe guerre. Ho visto la sofferenza dei nostri e tuttavia ho visto con gli stessi occhi anche la sofferenza dei nostri nemici. Ricordo che una volta nel ‘ 67 su uno dei ponti che ci collegano alla Giordania vidi una vecchia coppia di palestinesi che trascinava i propri pesanti bagagli, due vecchi in fuga. Chiamai allora un ragazzo arabo (io così com’ ero in divisa non potevo certo passare il confine) e lo pregai di portare per me il loro peso. Un’ altra volta su un’ aereo trasportavamo dei soldati egiziani feriti: sotto gli occhi critici e stupiti dei miei compagni soldati durante tutto il viaggio ho cercato come ho potuto di alleviare le loro sofferenze, con le parole, con un po’ acqua... Erano sofferenze identiche alle nostre. Nessuno capisce una verità palese: siamo tutti uguali. Sono le religioni monoteistiche che, ferocemente, ci hanno messo gli uni contro gli altri alla ricerca di una ragione assoluta. Benny Gefen si guadagna da vivere coltivando avocado e frutta tropicale. È un esperto di irrigazione e di macchine agricole ed è stato in questo campo anche un consulente governativo. Il kibbutz l’ ha lasciato dopo un matrimonio sfortunato. Oggi vive bene nel suo Moshav, ma ha una passione che talvolta lo porta a star lontano sia da Ben Ami sia da Yenin: parte con lo zaino in spalla e va nei Paesi poveri, in Cina, in Africa: soltanto la gente. Giro e giro a piedi, parlo con tutti e trovo sempre che tutti siamo la stessa cosa, tutti eguali sotto il sole Gefen è grato alle autorità del suo Paese perché gli lasciano fare il suo lavoro di osservatore con molto rispetto: in nessun Paese arabo questo è possibile. Tuttavia questo non mi esime da un’ opposizione anche dura. La nostra più grande ricchezza, la democrazia, l’ umanità , la rischiamo ogni giorno mettendo a rischio la nostra stessa esistenza. La pace è un bene urgente: il tempo, mi dispiace dirlo, non gioca a nostro favore. Fiamma Nirenstein

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