LA SPERANZA DI ISRAELE E LA GUERRA SENZA TORTI
venerdì 2 novembre 2001 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
BARBARA Spinelli, la collega che ammiro e di cui vado fiera, conosce
la
storia del popolo ebraico. C'è poco da suggerirle. Ecco quindi
un'equazione
da dimostrare: l'ebraismo non deve recitare un « mea culpa» perché
Israele
non ha mea culpa da recitare. E' una democrazia in guerra, e non ci
piace
guardare questa realtà che riguarda tutti, ormai. Israele deve essere
fiero
e problematico allo stesso tempo, applaudito e compatito. Applaudito
perché
ha dimostrato una meravigliosa vitalità , e per la sua forza. Perché è
restato tremila anni unito mantenendo il senso della nazione e della
cultura
oltre persecuzioni inenarrabili. Perché ha fondato con la genialità
dei
Dieci Comandamenti tutta la storia dei diritti umani, e ci resta
ancorato.
Ha fondato uno Stato non per orgoglio, ma per senso di necessità
(come dice
A. B. Yehoshua). E si tratta di uno Stato democratico in cui i
religiosi
sono il venti per cento. I teleschermi non lesinano donne seminude e
politici che si sbranano, con kippà e senza. La democrazia è di fatto
una
scelta tutta ascrivibile al retaggio dell'ebraismo in quanto cultura
e
dottrina, così come l'integralismo di alcuni lo è alla sua versione
minoritaria. Come per i cristiani negli Usa. Lo Stato ebraico è
capace di
difendere i suoi, ma l'esercito è sempre sotto la sferza della
critica
pubblica.
Israele deve essere anche compatito, perché è dentro la storia
contemporanea
nella sua forma più dolorosa (Spinelli invece ritiene che non abbia
capito
l'11 settembre): già da anni paga per essere sulla faglia dello
scontro fra
Islam e mondo secolare (di origine cristiana o ebraica che sia). Sì ,
la
grande esplosione è stata negli Usa, ma Israele dentro quel vulcano
vive
dalla sua origine. La dimensione territoriale dello scontro è molto
più
tarda di quella filosofica, molto più recente del « rifiuto arabo» , e
oggi
con la Intifada di Al Aqsa, che non a caso viene dopo il rifiuto
palestinese
di un compromesso a Camp David, si è tornati all'origine.
E' molto difficile immaginare una dimensione biblicamente
espansionistica di
Israele nel suo insieme, anche se il suo esercito dilagò nella guerra
del
‘ 67. Ma non ha annesso i Territori e ha lasciato il Sinai e il Libano
non
appena ha potuto. E anche la West Bank contiene ancora insediamenti e
posti
di blocco, pure l'intenzione si vede nella pratica, ovvero nel
lasciare le
città palestinesi col 98 per cento della popolazione in mano
all'Autonomia.
Sì , c'è del cammino da fare perché uno Stato palestinese possa avere
confini
accettabili, ma ce n'è tanto anche perché Israele possa essere
garantito
nella sua sicurezza.
Israele non nasce nella colpa, ma nel consenso internazionale
dell'Onu;
nasce nella necessità e nel sogno, genitori della storia. La Bibbia
ne è il
nutrimento ma non la madre; il sionismo non è religioso, non ha
desiderio di
dominio; il numero degli ebrei e degli arabi nella terra contesa non
era
distante nel ‘ 48; non vi era né Palestina-Stato né Israele-Stato, ma
due
nazioni sul suolo del Protettorato Britannico. I motivi del loro
diritto
alla terra attengono all'indispensabile catena degli umani, la
memoria. Se i
palestinesi hanno diritto alla Moschea di Al Aqsa, gli ebrei l'hanno
alle
vestigia del Tempio di Salomone e poi di Erode. E' la memoria di
Israele
costantemente assediata, mentre quella palestinese è in costruzione.
Bisognerebbe cessare dall'idea che una vada a detrimento dell'altra.
L'esperienza del colonialismo, per cui uno Stato manda un esercito di
conquista per procurare ricchezza, niente ha a che fare col dissodare
con le
proprie mani la propria patria; gli insediamenti sono risultato di
guerre di
difesa: sono una spina da togliere, ma non la causa del conflitto.
Infine:
la continua infinita sequenza di attentati terroristici deve essere
finalmente individuata come una causa e non una conseguenza del
conflitto.
La cronista seguì l'autentica estasi israeliana durante il processo
di pace;
vide quanto era radicata nell'albero dello Stato democratico la
speranza
nella gente, quanto Israele era pronta a smantellare l'apparato
bellico, e
gli autobus scoppiavano. La narrativa che ha vinto in Italia è stata
quella
della sofferenza dei poveri.
Barbara in una pulsione generosa, invece di pregare i palestinesi di
abbandonare il terrorismo e di sedersi con gli israeliani, prega
Israele di
chiedere scusa. E avrebbe ragione a estendere la richiesta agli
ebrei, che
anche quando criticano Israele non possono sentirsene lontani, come
se
Israele avesse un torto biblico ontologico: ma il torto non ce l'ha,
non
nella radice ebraica, non nella radice del conflitto, anche se può
commettere violenze inutili e causare ingiustificabili sofferenze
alla
gente. L'essere una democrazia in guerra, il chiedersi come restare
viva nel
terrorismo ha caricato Israele e gli ebrei di responsabilità
micidiali.
Chiedere scusa perché si porta la croce di problemi futuri? Certo che
no.
Contribuire alla pace? Sì , con tutto lo sforzo possibile.