La solitudine del guerriero
domenica 10 dicembre 2000 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
NON è un film e non fa sorridere: un uomo vero può anche piangere.
Aveva
gli occhi pieni di lacrime quando di fronte ai giornalisti, durante
la
conferenza stampa in cui ha presentato le sue dimissioni, Ehud Barak
ha
appoggiato il bicchier d’ acqua sul tavolo: aveva cercato di
nascondersi
dietro il bicchiere, di deglutire le lacrime. Ma non ce l’ ha fatta.
E’
finita. Dopo aver ribadito tutte le ragioni della pace nel momento in
cui si
è giocato fino in fondo tutte le sue carte, forse ha avvertito la sua
immensa solitudine.
Troppo duri sono stati gli ultimi giorni: tutti lo hanno abbandonato.
Prima
di tutto lo ha maltrattato gran parte dell’ opinione pubblica
mondiale,
lanciandosi nella condanna d’ Israele come se fosse stato Barak a
voler
iniziare questi terribili scontri che durano ormai dal 28 di
settembre, e
Barak si deve essere sentito terribilmente tradito nei suoi disperati
sforzi
di porgere ad Arafat ciò che forse sarà poco per il rais, ma è di
gran lunga
di più di quanto qualsiasi altro leader israeliano, compreso Yzchack
Rabin,
avrebbe concesso; in secondo luogo, mentre la strada a zig zag
imponeva a
Barak anche in politica interna continue frenate e svolte che
avrebbero
richiesto, tanto più in clima di guerra, una coorte unita come un sol
uomo
intorno al capo, in realtà all’ interno del partito laburista i vari
Bruto si
sono moltiplicati di giorno in giorno, persino il suo intimo amico
Chaim
Ramon, fino al suo gemello politico Yossi Beilin; e fino
all’ autocandidatura
a primo ministro di Shimon Peres che invece di insistere
sull’ investitura
che Rabin aveva dato al suo pupillo ex Capo di Stato Maggiore,
soldato e
pacifista come lui, lo ha in pratica dichiarato incapace di fronte a
tutto
il campo della pace. Tutto questo mentre il Likud si faceva più
aggressivo,
i coloni gli chiedevano di scatenare l’ esercito, e Barak invece
teneva duro
sulla linea dell’ « Ipuk» , il contenersi, il tirarsi indietro.
Infine, ma forse più importante di ogni altra cosa, l’ aiuto vero che
avrebbe
potuto venirgli per proseguire sulla linea della pace che invece
maggiormente gli è venuta a mancare, è stato quello di Arafat. Il
capo
carismatico dei palestinesi avrebbe potuto forse, dopo che si sono
scorte le
elezioni all’ orizzonte, lasciare che Barak avesse la possibilità di
fare
intravedere a Israele un orizzonte di pace. Avrebbe potuto se non
altro fare
balenare l’ idea che ancora Israele e i palestinesi possono con
profitto
scegliere la via dell’ accordo, della pace. Non è stato così : si può
dire
tranquillamente che Barak è stato disconosciuto dai suoi, ma
innanzitutto
dal mondo arabo.
Barak dunque gioca adesso davvero tutto su se stesso, sul limpido
desiderio
di pace: entro 60 giorni ci saranno le elezioni del Primo Ministro, e
forse
tra poco anche quelle della Knesset. Ora come ora la strada è tutta
in
salita, ma è pulita e trasparente: io gioco solamente sul campo della
pace,
se volete venite con me, se no torno a casa.
Un’ unica consolazione per chi ancora lo vuole come Primo Ministro: le
dimissioni secche e la loro anticipazione entro 60 giorni
probabilmente
impediscono a Bibi Nethanyau di presentarsi candidato primo ministro
per il
Likud alle elezioni. La legge prevede che non lo possa fare chi non è
deputato.