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LA SOCIETA’ PALESTINESE DAVANTI ALLA VIOLENZA Dai kamikaze ai com mando guerriglieri Cambia la strategia militare nei Territori occupati

mercoledì 17 luglio 2002 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME LA dinamica del terrorismo palestinese è ormai attorcigliata, misteriosa. Stavolta, per fare una strage di ragazzini, lo sforzo è stato grande, dopo qualche settimana di vacanza: invece del solito terrorista suicida, si è vista una autentica operazione di commando sullo stile (e probabilmente con l'aiuto) degli hezbollah. Da Fatah a Hamas, con mine, armi e divise rubate e vie di fuga, tutte le organizzazioni hanno messo in campo il meglio che avevano, superando l'assedio dell'esercito israeliano, che pure ha evitato in questi giorni tanti attentati. Se lo si guarda con gli occhi della ragione politica, la cosa è del tutto incomprensibile: il terrorismo, suicida o no, non ha funzionato se non in una logica tutta interna al mondo della jihad, dove lo scontro per il bene, che è anche religioso, contro il nemico che è anche nemico di Dio, ha un valore di per sè ; il martire e il guerriero sono santi. Arafat era stato visto a lungo come un uomo politico duro ma ragionevole, la società palestinese come una società più moderna di tante società orientali. Gli attentati hanno cambiato il punto di vista del mondo, e rischiano di ridurre la causa palestinese ai minimi termini. Adesso, di nuovo, si riproducono coattivamente, dopo che la strategia di mettere Israele in ginocchio e costringere il mondo con la forza a sostenere la causa palestinese è fallita. Il potere di Arafat agonizza sulla richiesta di Bush di inventarsi l'unica democrazia araba del mondo; le ipotetiche elezioni del 2003, annunciate dal Raí ss, non si sa nemmeno più se lo vedranno candidato o se invece sarà giubilato in un ruolo onorifico. Saleh Abdul Jaawad, capo del dipartimento di scienze politiche e storia dell'Università di Bir Zeit dice chiaramente che mai il Raí ss è stato in difficoltà così grandi: « Voi occidentali vi accontentate del 50,1 per cento, ma Arafat che è il simbolo della nostra lotta di liberazione vuole ben di più » . Ma la condizione, anche per lui, era lasciare che Bush spingesse Sharon a dargli sollievo economico, che la gente scordasse per un attimo la corruzione della sua classe dirigente per adagiarsi nella speranza. Visto che dal 20 di giugno non c'erano più attentati, che per Israele ormai è tragicamente un discreto record, Arafat avrebbe potuto adesso ottenerne qualche risultato: il Quartetto in queste ore parla di lui e solo di lui, del suo futuro, delle sue riforme. Ma da parte palestinese risuonano scoppi di bombe, tornano alle cronache foto di bambini armati fino ai denti, alle tv clip con canzoni che inneggiano per ore ai martiri. Si può fermare tutto questo? Perché avviene? Da dove esce il grande desiderio di morte che investe un'intera società ? Noah Salameh, un'attivista palestinese del dialogo, pochi giorni fa parlando con sua figlia, 12 anni, che tornava dagli allenamenti di pallacanestro a Betlemme si è sentita dire che la ragazzina voleva diventare una terrorista suicida. Salameh si è sentita spiegare che « a scuola tutti parlano di Ayyat Ahras, la ragazza suicida di 17 anni che al supermarket di Gerusalemme ha ucciso due israeliani e ne ha feriti ventotto. E' l'eroina di tutti i miei amici; quelli della sua organizzazione, i martiri di Al Aqsa vengono spesso a parlare con noi, e lei è la mia eroina» . Vendetta, patriottismo, rabbia sulla base di una cultura che come ha detto un esponente di Hamas a un giornalista israeliano « sa amare la morte come voi amate la vita, e questo ci rende forti» , scarse motivazioni verso il futuro, rapporti sociali e fra i sessi arretrati, cultura recintata dalla religione, e psicosi giovanile alimentata da una leadership massimalista e autocratica fanno sì che il 51,1 per cento dei palestinesi veda lo scopo dell'Intifada come « la liberazione di tutta la Palestina» , mentre il 42,8 come « la fine dell'occupazione israeliana» . Dice Ali Jarbawi, uno scienziato politico della Cisgiordania, che se anche questo quarantadue per cento si sente deluso nelle sue aspettative « allora si va verso l'estremismo» . Ma l'estremismo è qualcosa di diverso dall'uccisione spasmodica (siamo a seicento vittime) di donne e bambini, dal terrorismo a catena. La spiegazione che danno i palestinesi è semplice e complessa: dice S. H., uno psicologo che vive a Rafah: « All'inizio dell'Intifada, quando si cominciò ad avere lutti in famiglia o fra gli amici, la gente cercò sollievo nella vendetta. Si è poi aggiunta una pesante ispirazione religiosa, sempre più donne si coprono il capo, più uomini pregano cinque volte al giorno, moltissimi adorano lo Shahid. La religione, come sempre nella storia, è diventata la difesa dei poveri» . Ma qui, più che di difesa, la religione sembra divenuta uno strumento di attacco: « Questo perché - dice un altro psicologo, il dottor Mzeini, che è appartenuto a Hamas - i giovani immaginano di essere comunque destinati alla morte, dal momento che l'hanno sperimentata sui loro amici o famigliari. Quindi decidono per una morte prescelta» . Molti dicono che i palestinesi intraprendono azioni terroristiche per « disperazione» . A questo soprattutto i combattenti di Hamas rispondono con un reciso « no» , che si tratta di una scelta per niente legata alla condizione sociale o sociologica, ma puramente politica e religiosa. Certamente, aggiungiamo noi, giocano molto negativamente le decine di migliaia di dollari che sia gli Arabi sauditi che il regime di Saddam Hussein (25 mila dollari a famiglia) versano alle famiglie dei terroristi. Secondo Mzeini, poi, la promessa delle 72 vergini e di altre delizie legate al paradiso è importante, data la condizione di apartheid sessuale che vige nelle società mediorentali. Dice Salameh: « Basta con la corruzione, io dico. Ma non: basta con la lotta a Israele» . I Martiri di Al Aqsa sono sempre là , mentre Bush parla della necessità che Arafat riformi l'Autonomia.

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