LA PACIFICAZIONE INTERNAZIONALE FINE DELLE ILLUSIONI
martedì 27 febbraio 2001 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
CI sono molte cose nuove che presto, comunque le si voglia
giudicare,
saranno parte del comune modo di vedere la politica internazionale.
Sono
concetti che scuotono nel profondo le nostre (anche personali)
convinzioni,
coltivate in dieci anni di quello che in Medio Oriente è stato
chiamato
impropriamente « processo di pace» , e nel mondo è stata invece la
felice fase
di appeasement dopo la caduta del comunismo.
Quando l'avventura sovietica si è conclusa, si è immaginato che
l'egemonia
di Mosca avesse cavalcato le guerre di indipendenza nazionale e la
miseria,
e che dopo la sua caduta ogni questione si sarebbe potuta affrontare
pacificamente, o quasi. Ma non era vero, o almeno non era soltanto
così : una
volta esauritasi la forza propulsiva dell'Urss nell'antagonismo
mediorientale all'Occidente (per esempio, ma potremmo allargarci ad
altre
aree del mondo), ecco che Iraq e Iran ancora puntano a tutta forza
verso
l'arma atomica, la Siria si riarma con migliaia di missili. Prolifera
nel
frattempo la minaccia delle armi chimiche e biologiche e il
terrorismo,
molto potenziato, si è dotato di una rete mondiale di intervento. La
politica comunista è fallita, ma non è affatto tramontata la
dimensione
strategica dello scontro con gli Usa e l'Europa. Non è uno scontro
rivendicativo, che chiede misure specifiche, è un'antica spinta
esistenziale
che contiene un'appassionata disapprovazione morale.
La seconda illusione che dobbiamo toglierci è che l'integrazione -
ovvero,
in termini economici, la globalizzazione, condita dei sorrisi tipici
della
gestione Clinton - sia di per sé una garanzia di pacificazione: al
contrario, strutture di potere legate ad altri sistemi sociali, a
gerarchie
non costruitesi sulla democrazia, l'hanno vissuta e la vivono come
una forma
di prevaricazione paternalistica (sia gli interventi economici sia i
sorrisi). Un magnifico esempio è il Nuovo Medio Oriente di Shimon
Peres: mai
intenzione fu migliore, mai il sospetto arabo che si fosse messo in
moto un
nuovo egemonismo occidentale fu più grande.
L'ultimo punto e forse il più importante: la dura lezione dell'ultima
parte
del conflitto israelo-palestinese insegna che non c'è una soluzione
per
tutto, come credevano Clinton, Barak e noi tutti con loro. Non c'è
soluzione
territoriale né economica quando c'è un grande gap nella
comunicazione,
quando sono coinvolte passioni gigantesche, quando le modalità del
dialogo
sono troppo diverse. Ehud Barak, essendo (al pari di noi europei) un
credente nel concetto occidentale di pace come parte integrante della
vita
stessa, come qualcosa senza la quale la vita non è vita, poteva
sormontare
le sue passioni. Non c'è in questo lode né biasimo, nessuna di quelle
fanfare che sono state suonate dal ‘ 93 in poi nel corso del processo
di
pace. E' una constatazione antropologica, che si attaglia solo a una
parte
del mondo: la nostra, che si illude a volte di essere la sola a
giocare.