La pace fatta di trucchi Tre partner, poca stima e niente fiducia
giovedì 13 marzo 1997 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV C'È qualcosa di spastico e anche di convulso nella piega
che hanno preso di nuovo gli eventi in Medio Oriente. È come se in
questi giorni si stesse manifestando l'essenziale incompatibilità
tra i soggetti che dovrebbero portare a compimento il processo di
pace, ovvero Benjamin Netanyahu e Arafat, ma anche re Hussein e gli
altri rais della zona. Ognuno, oltre a fare delle cose è anche fatto
in un certo modo. E la forza della sua natura prevale sulla forza
delle sue azioni. Prendiamo per primo il grande accusato, Netanyahu:
fino al momento della sua visita a Washington si è comportato in
modo zigzagante ma alla fin fine orientato verso la pace, come del
resto gli riconobbe Arafat nella sua intervista alla Cnn. Sia che lo
abbia fatto per motivi di opportunità internazionale, sia perché si
sia reso conto, via via che lasciava dietro di sé il ruolo di grande
oppositore, che il primo ministro d'Israele non poteva far niente
altro che onorare gli accordi presi, Bibi ha smesso di strombazzare
al mondo la sua avversione per Arafat; è andato ripetutamente a
stringergli la mano; ha abbandonato le azioni di spregio e di
disturbo come quella di impedire all'elicottero del presidente
palestinese di atterrare; ha attuato, dopo aver fatto il grande
sbaglio di aprire la galleria sotto il monte del Tempio,
l'evacuazione di Hebron (città che ancora forse il mondo non ha
capito quanto sia santa per l'ebraismo); ha finalmente firmato
l'accordo di Oslo, ricevendo peraltro alla Camera la strabiliante
maggioranza di 87 voti contro 17. Da allora ha svuotato la forza
dell'opposizione, ha seppellito il sogno del Grande Israele e ha
ridotto in un angolo la parte più estrema del suo elettorato, che
infatti non si vede più in piazza né sa sollevare l'opinione
pubblica in alcun modo. Insomma, si è messo in una posizione di
credibilità rispetto al processo di pace che gli è valso il
sostegno americano quando è andato in visita da Clinton, e lo ha
aiutato a illudersi che la costruzione di Har Homà , a Gerusalemme,
sarebbe passata, specie perché era accompagnata dallo sgombero di
una parte (il famoso 9,1 per cento) delle zone B e C. E invece ha
avuto torto: palestinesi e israeliani sono di nuovo sull'orlo di uno
scontro che potrebbe anche sfociare in una nuova Intifada. Il grande
errore di Netanyahu è di non riuscire a considerare Arafat un vero
partner, un interlocutore a tutto tondo, politicamente e umanamente;
e in fondo, di avere la stessa idea anche degli altri leader arabi.
Netanyahu non ha preso cattive decisioni, Har Homà non viola gli
accordi di Oslo, non ha niente a che fare con i Luoghi Santi; né il
ripiegamento del 9,1 per cento dalla West Bank è un ritiro ignobile,
dato che è interlocutorio, che altre fasi sono previste. Il guaio è
che Netanyahu ha messo Arafat di fronte a una situazione di fatto
senza sedersi di fronte a lui, da leader a leader, occhi negli occhi.
Perché non l'ha fatto? Perché ha deciso tutto unilateralmente?
Perché la sua parte politica è in parte composta di falchi che non
credono a una parola di quello che Arafat dice, o almeno pretendono
di non crederci, e che per seguitare ad essere dalla parte di Bibi
vogliono che egli si comporti ostentando sicurezza e superiorità . E
adesso prendiamo Arafat: anche in lui c'è una sindrome che impedisce
il processo di pace, ed è la tentazione di tirar fuori dal cappello
i suoi due conigli preferiti: la minaccia della ,
ovvero del ricorso alla violenza - misura espressamente vietata
dall'accordo di Oslo - e il tentativo continuo di creare un Tribunale
internazionale che inchiodi Israele alle sue colpe. È vero che
Netanyahu non ha discusso con Arafat prima di decidere lo sgombero
delle truppe israeliane, ma è vero anche che Arafat si è fatto
negare per due volte al telefono quando Bibi l'ha chiamato, al
ritorno del Presidente palestinese dall'America. E certamente Arafat
non ha agito verso la conciliazione convocando a Gaza urgentemente,
per sabato prossimo, una grande riunione di emergenza per
processo di pace senza invitare gli israeliani. Non sa ancora che
non c'è nulla di più provocatorio, per Israele, dell'isolamento
dall'opinione pubblica internazionale? La verità è che ambedue gli
antagonisti hanno una vera difficoltà ad accettarsi, ad avvicinarsi
ai reciproci problemi, e quindi a diventare autentici partner
politici. Adesso, a quel che si sa, le ruspe che dovrebbero
cominciare a scavare domenica prossima ad Har Homà sono di nuovo
state fermate; questo però potrebbe significare quasi per certo
crisi di governo. Quanto a re Hussein, certamente ha avuto dalla pace
con Israele molte delusioni: l'aeroporto di Aqaba ancora
irrealizzato, i 50 milioni di metri cubi d'acqua promessi ancora
tutti nel lago Kinneret invece che nei bacini giordani; le comuni
strutture turistiche sul Mar Morto, dimenticate. Ma ciò che ha più
rovinato i rapporti col sovrano hashemita e che l'ha spinto a
scrivere la lettera sprezzante di due giorni or sono è di nuovo una
questione d'onore. Hussein aveva con la sua influenza convinto gli
israeliani e i palestinesi a portare a conclusione il faticato
accordo per Hebron. Ne aveva vista la sua statura politica
accresciuta, in un mondo, come quello arabo, dove la ricerca di
primato ideologico e politico è assai importante. E adesso, invece,
Netanyahu lo visita, lo consulta, e poi seguita a fare quello che
più gli aggrada? La verità è che Bibi aveva creduto, andando dal
re, di ottenerne il consenso; e il re invece, ricevendolo, di
condizionarne le scelte. Insomma, Netanyahu deve finalmente capire
che le sue logiche risultano provocatorie e scostanti; e d'altra
parte Arafat e in genere i leader mediorientali non si rendono ancora
conto che non è con l'arma della minaccia che si piega Israele.
Anzi. Fiamma Nirenstein