La nuova semplice ma efficace arma del terrorismo: il fiammifero
giovedì 1 dicembre 2016 Diario di Shalom 0 commenti
Shalom.it, dicembre 2016L’intifada del fuoco, con decine di incendi appiccati contemporaneamente, ha messo in ginocchio Israele. Una forma di aggressione subdola che non fa differenza, tra persone, piante, animali e abitazioni e che potrebbe essere esportata anche in Occidente C’è da ringraziare il Cielo e l’incredibile coraggio e resistenza dei vigili del fuoco se l’immenso incendio che ha bruciato per quasi una settimana e in parte sta ancora bruciando Israele con fiamme altissime ad ogni latitudine, non ha fatto morti ma soltanto 180 feriti, al contrario di quello che accadde nel 2010.
Ci vollero cinque giorni a riportare la zona sotto controllo, anche se, anche quella volta, da vari Paesi stranieri arrivarono aiuti e aerei per spegnere il fuoco. Ma Israele imparò da quella volta come battersi contro il fuoco e le ferite da fuoco, migliorando il servizio dei Pompieri, mettendolo in condizione di collaborare coordinandosi con l’esercito e la polizia, e organizzando poi le squadre di soccorso in modo che sappiano affrontare emergenze di massa e per ferite gravi subito sul posto, o dirigendo i colpiti negli ospedali adatti, secondo le necessità e la gravità delle lesioni. Quello che colpisce di più in queste ore di tragici racconti di pericolo e sorpresa che hanno fatto tanti esuli, è una foto apparsa domenica scorsa su molte prime pagine in Israele, in cui due vigili del fuoco, palesemente provati dal sonno e dalla fatica, si riposano ingrigiti dalla cenere in mezzo a un mondo divorato dalle fiamme, in mezzo a sterpi e scheletri di costruzioni distrutte. Anche le foto delle foreste andate a fuoco fanno male al cuore.
Dalle cronache si sa che i vigili hanno lavorato 24 ore su 24 per giorni, e che quello che ha salvato tanta gente è la passione, la dedizione senza limiti che hanno messo nel dedicarsi al salvataggio. Ascoltare la radio israeliana in questi giorni è stata una testimonianza di eccezionalità in questo Paese martoriato: le famiglie evacuate, migliaia, sono state circondate da una solidarietà che ha aperto le porte delle case dei parenti, degli amici, dei conoscenti, a intere famiglie, e chissà per quanto tempo, in tutta Israele.
I proprietari di case distrutte, anche queste migliaia se si pensa che solo a Haifa sono 60mila gli evacuati e si parla della distruzione completa di 700 case e di altre centinaia danneggiate. La velocità di risposta degli uffici preposti agli indennizzi e alla ricollocazione è sorprendente. Ovunque, dal nord al sud, i 2000 pompieri con i 500 soldati incaricati di affrontare la catastrofe si sono impegnati allo stremo, mentre nel cielo invaso dalle colonne di fumo nero volavano gli aerei carichi di acqua, anche quelli pervenuti dall’Italia, dalla Grecia, da Cipro, dalla Turchia, dalla Giordania, dall’Egitto. Anche 44 pompieri bravi palestinesi, vilipesi e maltrattati dai loro connazionali per avere aiutato a salvare degli ebrei, sono andati in soccorso e hanno lavorato molto bene a fianco delle forze israeliane. Questo è senz’altro promettente, ma purtroppo una nuova realtà, che le autorità israleiane affrontano con molta cautela, si sta disegnando. Si tratta del fuoco, un’atroce arma di terrorismo di massa, con significati simbolici oscuri quanto lo può essere l’immagine dell’inferno, del fuoco distruttore, e quindi con tutte le potenzialità di sviluppo non solo in Israele, ma nel mondo intero, di uno strumento di aggressione della civiltà attraverso la più elementare fra tutte le armi, persino di più di un coltello o di un’auto che investe i passanti: un fiammifero. Israele, come è stato in questi giorni, è Paese di venti forti, spesso caldi, secchi, sabbiosi, provenienti dall'Est.
Questi venti nell'ultima settimana di novembre hanno spazzato la regione. È vero che alcuni incendi si sono diffusi anche presso i palestinesi, ma la concentrazione del fuoco in Israele è al di là di ogni dubbio gigantesca, molto più elevata che in qualsiasi altro luogo, e mentre scriviamo la polizia - benché restia a categorizzarli come “arsonist”, incendiari palestinesi, per paura che l’idea si possa spargere nel mondo arabo con pessime conseguenze - pure ha dovuto fermare 35 persone. Sono proprio quelle, come si dice, scoperte proverbialmente con il cerino in mano, o con la benzina o addirittura con una bottiglia molotov. Mentre il numero dei fermati aumenta, i social network arabi sconciamente esaltano l’incendio: l’ashtag “Israele brucia” è il più popolare e i commenti sono spaventosi, fino a sperare di sentire un buon odore di “barbecue di ebrei”. Qualcun altro, tempo fa, aveva pensato che potessero finire tutti bruciati.
Questo tipo di attacco, sperando che venga contenuto e che si riveli, come potrebbe ancora essere, un episodio di frangia, colpisce forse ancora di più delle Intifade cui abbiamo assistito per la sua viltà, la ignobile facilità con cui può essere portato, per la immensa disponibilità tecnica a diventare la prossima strada imboccata dal terrorismo di massa. In Italia il fuoco fu usato una volta dal movimento extraparlamentare quando nel 1972 gli assassini dettero fuoco alla casa di un dirigente missino: persero la vita i suoi figli di 8 e di 22 anni. In Israele, il 31 luglio a Duma un bambino palestinese di diciotto mesi è stato ucciso con un rogo da estremisti israeliani.
L’Isis ha ucciso col fuoco un povero pilota egiziano rinchiuso in una gabbia. Sono vicende imperdonabili, seminali, degne di punizioni esemplari, che hanno destato l’ira mondiale giustamente. Qui il fuoco indiscriminato disegna cento, mille assassini che potrebbero usare la più vile fra tutte le armi, quella che uccide gli uomini, gli animali, le piante meravigliose di Israele coltivate con tanto sacrificio su una terra arida e sterile da secoli. La terra dell’esilio ebraico. E’ questo che adesso si cerca. Un nuovo esilio una fuga di massa degli ebrei. Ma non accadrà. Un mio amico israeliano mi dice: “Ad ogni cambiamento nella guerra con i nostri nemici, siamo rimasti per un attimo sconcertati, immobili. Abbiamo riflettuto, ci siamo conformati, e poi ce l’abbiamo fatta. Anche questa volta impareremo, e alla svelta, a combattere il fuoco”.