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LA GUERRA DELL’ INTIFADA GLI INSEDIAMENTI CHE SOPRAVVIVONO SOLO GRAZIE ALL’ ESERCITO Nella colonia dei sepolti vivi A Kfar Darom, assediata dai palestinesi

martedì 21 novembre 2000 La Stampa 0 commenti
KFAR DAROM NON sono molti quelli che percorrono la strada da Kfar Darom a Kitzufim dove dopo l'attentato è rimasto pieno di buchi grossi come cocomeri l'autobus scolastico a strisce arancioni. Per terra gli zaini rosa e celesti, il sangue, tutto intorno la polvere di Gaza col solito segno grafico delle palme. Avanti e indietro vanno quasi soltanto i veicoli dei circa 6000 coloni che abitano nei 17 insediamenti di Gush Kativ, la parte israeliana della striscia di Gaza, frammentata, assediata. Un mondo che non sopravviverebbe un giorno se non fosse per l'esercito. Da Kitzufim sul rettifilo si viaggia soltanto scortati dall'esercito o in un veicolo militare, preferibilmente blindato. Il pericolo costante sono le bombe poste lungo le strade, come in Libano: i terroristi le fanno scoppiare e scappano, come ieri, dentro la zona A. Un primo vasto campo militare, che serve soprattutto da sostegno logistico segna l'inizio dell'inferno. Poco più avanti, la guerra: la segnala subito il percorso disseminato dai segni degli agguati,da reperti balistici da incubo: come i segni lasciati sul cemento del posto di blocco dal terrorista suicida saltato per aria due settimane or sono, o la macchina bruciata e sforacchiata da cui hanno sparato pochi giorni dopo due palestinesi risultati poi poliziotti di Arafat rimasti morti sul campo dopo aver ucciso un civile israeliano. « Il nostro compito - ci spiegano i soldati mentre esploriamo stupefatti l'assedio elettivo in cui vivono i circa 250 abitanti di Kfar Darom, dal cui cancello è uscito ieri alle otto meno un quarto lo scuola-bus - è consentire agli abitanti del Gush Kativ una vita quanto più simile possibile a quella di qualsiasi cittadino israeliano. Si devono poter spostare, andare al lavoro, a scuola, alle loro serre, nelle loro fabbriche, senza paura. E' loro diritto» . Ma non è possibile. Barak, tutti lo sanno, era andato a Camp David offrendo gli insediamenti di Gaza, quelli meno santificati dalla religione, più difficili da difendere, piazzati nella striscia maledetta che Israele voleva lasciare fin da prima gli accordi di Oslo perché è zeppa di problemi politici ed economici, di campi profughi, di miseria, perché ha il tasso di natalità più alto del mondo. Adesso Sarah, una giovane donna sposata da due mesi accompagnandoci dentro il quadrato di cemento coltivato illusoriamente a fiori rossi e con l'erba ben rasata spiega le ragioni metafisiche della sua insistenza: « Adesso che i palestinesi sparano anche su Gilo a Gerusalemme e lungo tutte le strade del Paese, tutti capiscono che se ce ne andiamo perchè ci odiano, tanto vale che si lasci Gerusalemme, e poi Haifa, e poi Tel Aviv. Non siamo solo noi l'obiettivo dei palestinesi: noi siamo l'avamposto» . Una donna, Dacla, la cui bambina era alunna di Miriam, la maestra morta nell'attentato, piange disperata. E racconta come i bambini vivono la situazione: « Ogni notte, ogni notte ci sparano da oltre il muro. Appena scende l'oscurità , comincia un film dell'orrore. Non una o due volte, ma decine di volte ci svegliamo perché ci stanno sparando addosso. I bambini piangono, assonnati, spaventati. Li lasciamo entrare nel letto dei genitori per consolarli, e li riaddormentiamo spiegando che l'esercito ci difende, che è forte. Ma noi sappiamo che l'esercito ha ordine di non inseguire i cecchini nella zona A, di andarci piano. E così tornano in cerca di noi, la loro preda» . Il padre di una bambina ferita, Yossi Haddad, racconta che i suoi figli di notte fungono da esperti balistici: « Questo botto è un kalashnikov, questa una bomba molotov» . Kfar Darom è collegato alla postazione militare che, dall’ alto di un ponte, li protegge: dentro il villaggio non si vedono soldati. Salvo che per gli spari, vi regna un paradossale silenzio. Il Tempio troneggia grigio nel vento che porta aria di mare. Gli abitanti producono verdure biologiche con tecniche perfezioniste. La realtà di sangue viene gridata e negata allo stesso tempo: « Non ogni giorno è un disastro» dice Yossi, mentre si asciuga le lacrime disperato perché la sua bambina, Rachel, è ferita. Ma non lo sa che saranno i primi insediamenti a volare via appena si tornerà alla trattativa? E non gli sembra di mettere i suoi bambini in un vano pericolo? « Mia figlia - dice Yossi che inalbera una piccolissima kippà , su un testone di riccioli - sa benissimo tutto, può dare lezioni» « Quanto a volare via - aggiunge un suo amico - non vedo trattati all'orizzonte. Comunque, contiamo su noi stessi e su Arafat» .

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