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LA DEMOCRAZIA SI DIFFONDE IN MEDIO ORIENTE MA CI SONO DEI RISCHI L’ « e ffetto domino» vale anche per il terrore

mercoledì 2 marzo 2005 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein Ieri sera a Tripoli dove è nato il premier libanese dimissionario Kharami la rivoluzione popolare ha avuto il suo primo morto. Già si spara e mentre tutte le componenti (musulmana, cristiana, drusa) sembrano unirsi contro il governo e l’ occupazione siriana, ha inizio una reazione che potrebbe diventare molto sanguinosa. La Siria è in agguato, dietro la Siria l’ Iran, con loro gli Hezbollah, oltre a altri gruppi terroristici pronti a dare una mano. Significa che, quando si presenta l’ ondata democratica e libertaria, si provoca una spaccatura, che in realtà esiste un genuino desiderio popolare di conservare lo status quo? No, i popoli arabi sembrano desiderare veramente la democrazia. Proprio come in Iraq dove questa domanda ce la poniamo a ogni attacco terroristico, la verità è che di fronte a una chiara volontà popolare c’ è invece una trama di potere e di interessi (quelli baathisti in primis) che può anche strumentalizzare grandi fasce di popolazione che per etnia o per gruppo religioso ritengono più utile appoggiarsi a gruppi di potere decisi a mantenere lo status quo. Ma la gente in generale (anche molti baathisti), invece, ha un ruolo determinante nell’ effetto domino di cui tanto si parla; è una fantasia che sia forzato importare la democrazia in Medio Oriente, per quanto dura, lunga e sanguinosa la battaglia possa essere. La sinergia è evidente: da una parte il popolo, dall’ altra la determinazione degli Usa e dei loro alleati, e, piano piano, l’ aggregarsi, come si è visto ieri, dell’ intero Quartetto, volente o nolente ma costretto dai fatti. Di sicuro Condy Rice non avrebbe affermato ieri che per il Libano occorrono elezioni democratiche se il popolo libanese non fosse sceso in strada ottenendo le dimissioni del governo. E d’ altra parte, il popolo libanese non sarebbe sceso in piazza così impetuoso se non avesse sentito che nel Medio Oriente tirava un vento nuovo. E che dire della della Conferenza di Londra? Mai 25 stati compresi gli Usa si sarebbero riuniti a tifare, invitati da Tony Blair a Londra, per la democrazia palestinese, se la gente non avesse partecipato a elezioni autentiche, che hanno eletto col 65 per cento un leader molto diverso da Arafat. E se gli israeliani non avessero sfatato il mito che il terrorismo non si può battere. E in Iraq, oggi non esisterebbe speranza per il futuro se le elezioni fossero state disertate. E certo tuttavia queste non sarebbero mai avvenute se gli Usa e gli alleati non avessero combattuto una dura guerra. E che dire dell’ Egitto, dove un gruppo aggressivo di dissidenti è sceso ieri in piazza per il detenuto politico Aiman Nur, guidato da sua moglie? Certo non sarebbe accaduto se Mubarak, spinto dal riaffermarsi della guerra alle tirannie, non avesse annunciato la sua riforma. Anche in Arabia Saudita già si promette il voto alle donne dopo le ultime elezioni farsa. E nella stessa Siria decine di intellettuali una settimana fa nonostante il rischio terribile hanno mostrato il volto in piazza; e se insieme al bisogno di respirare non si avvertisse che l’ ossigeno stavolta c’ è , si può giurare che la gente non manifesterebbe. Immaginiamoci, poi, quello che si sta muovendo in queste ore in Iran, il Paese dove l’ opposizione è da anni diffusa specie fra gli studenti e si ama quasi tutto quello che è occidentale, e più di ogni altra cosa la libertà ; immaginiamoci quanto la discussione sia fitta e speranzosa nelle ore in cui l’ arricchimento dell’ uranio in Iran è diventato per gli Usa il maggior pericolo strategico e Bush ha più volte dichiarato di non potere nè volere ignorarlo. Ciò che si vede chiaramente è che la rivoluzione in atto nel Medio Oriente, il famoso processo domino di cui si discute tanto è di fatto un processo popolare, di base. E’ diventare ridicolo affermare che i popoli arabi e iraniano non abbiano desiderio di democrazia, e che si voglia importarla per i comodi dell’ Occidente. È invece vero che le forze in campo per bloccare la valanga sono agguerrite: guardiamo alle operazioni siriane di questi ultimi giorni. La Siria, dopo essere stata messa sotto accusa per avere aiutato prima Saddam Hussein e poi i terroristi baathisti, ha compiuto due mosse davvero impensabili, almeno a giudizio di quasi tutti gli osservatori internazionali: c’ è stato l’ assassinio di Hariri e poi l’ attacco terrorista di Tel Aviv, che anche per i palestinesi è stato organizzato dalla Jihad Islamica da Damasco con l’ aiuto degli Hezbollah. Perché la Siria ha interesse a siffatte tragedie, che non fanno che additarla alla riprovazione internazionale? Nel primo caso perché Hariri era un grande pericolo con tutti i suoi soldi, la sua influenza, i suoi rapporti con l’ opposizione da un parte e con Usa ed Europa dall’ altra. Poi perché la pulsione di una guerra percepita dalla leadership come di sopravvivenza ha il sopravvento. In terzo luogo, ma non meno importante, perché la Siria spera di suscitare una reazione di contrattacco da parte di Israele, come è accaduto in passato, così da bloccare la rivoluzione interna e ricompattare le fazioni libanesi. Ma Israele non si vendicherà facilmente, nè le fazioni si lasceranno abbindolare. Quindi resta un’ altra strada: usare le forze del Libano per creare sangue e confusione. Come accade in Iraq. Ma i popoli mediorientali non si lasceranno sviare facilmente. Hanno tanto sofferto, sapranno ancora soffrire, stavolta per il futuro dei loro figli.

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