L’ UOMO NEL QUALE IL MONDO RIPONEVA LE SPERANZE DI UNA VERA SVOLTA IN MEDIO ORIENTE Sconfitto dal Raí ss e da se stesso Tre mesi di boicottaggio e di grandi occasioni sprecate
domenica 7 settembre 2003 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
ARRETRA dalla scena l'uomo della speranza, Abu Mazen, e mentre lui si
allontana la guerra avanza, la scena si surriscalda con il tentativo fallito
di uccidere il mandante di centinaia di terroristi suicidi, lo sceicco e
capo di Hamas Ahmed Yassin. Abu Mazen ne va, sempre che Arafat glielo
permetta (perché anche di questa scelta il diabolico Raí ss resta padrone) in
maniera caotica e distruttiva, con un « j'accuse» diretto a Arafat, dopo
quello di due giorni fa contro Sharon; e soprattutto sull'onda delle
immagini di una folla violenta che venerdì , sulla strada verso il
Parlamento, gli si buttava addosso con intenzioni minacciose, e che l'ha
sollevato su una nuvola d'odio in parte spontaneo e in parte orchestrato da
Arafat fino a farlo quasi volare, in fuga, dentro l'aula.
Per capire a fondo i motivi della scelta di Abu Mazen, oltre ad ascoltare le
sue parole, che accusano Israele come Arafat, è bene ricordare come poco
dopo, durante la stessa seduta, un gruppo di uomini mascherati nello stile
terrorista abbia cercato di irrompere armi in pugno dentro la sede del
potere centrale dei palestinesi. Le dimissioni sono l'apoteosi di un dramma
che insieme con mesi di sofferenze e anche di errori hanno portato Abu Mazen
alle dimissioni nelle mani di Arafat. Il Raí ss le ha perseguite senza
tregua, con astuta, elementare cecità , e con quel masochismo del potere che
lo ha guidato anche a Camp David; ora può mostrare a un mondo perplesso e
spaventato dal futuro la testa del suo nemico, come mostrò facendo il segno
della V la morte dell'accordo di Oslo.
E' riuscito a fare dell'uomo che per vent'anni era rimasto fedelmente al suo
fianco un servo degli americani e degli israeliani agli occhi della sua
opinione pubblica, solo perché , sia pure in maniera molto esitante, Abu
Mazen cercava di tornare al tavolo di pace. E adesso ha fatto fuori l'uomo
che Bush aveva definito « un leader coraggioso e desideroso di pace» e che ad
Aqaba, dopo la guerra in Iraq, aveva insieme con Sharon aperto la strada
all'idea che il medio Oriente potesse avviarsi comunque su un stretto
sentiero di democratizzazione e quindi di lotta al terrorismo con la Road
Map.
Arafat ora probabilmente pondera sul che fare di una vittoria che brucia
come una palla di fuoco. Se accetta le dimissioni, resta nudo con il suo
obsoleto anche se robusto potere che ormai tutto il mondo considera « non
parte della soluzione ma parte del problema» , come ha detto il ministro
degli Esteri israeliano Silvan Shalom, e come echeggiano le parole di
preoccupazione dell’ Unione europea; e dichiara di fatto aperta una nuova
fase di acuto conflitto con Israele, che rifiuta di avere a che fare con
lui. Di fatto, rischia l'esilio, di cui Gerusalemme parla da tempo; inoltre
mette l'Autonomia in contrasto non solo con Bush ma anche con l’ Ue.
Se Arafat incarica di nuovo Abu Mazen di formare il governo si contraddice
presso i suoi, specie dopo che Yassin è stato attaccato e la folla di Gaza
reagisce accumunando nell'odio Israele e Abu Mazen; perde parte del credito
che la sua forza schiacciante gli ha procurato presso la sua gente dopo tre
anni di violenza disastrosa di cui Arafat seguita a fornire
un'interpretazione trionfalista, consolatoria, che la folla ama ascoltare
specie se messa di fronte all'alternativa di combattere le organizzazioni
terroristiche; se incarica un nuovo premier, deve tener conto della
richiesta internazionale di non usare un burattino, e quindi il problema del
suo potere personale torna in primo piano, dato che comunque il governo
israeliano non tratterà né con lui né con una sua controfigura. Ognuna di
queste opzioni è piena di spine, e si ha l'impressione che Arafat non abbia
saputo frenare in tempo, catturato da una serie di false impressioni, come
quella che con un rinnovato segnale di forza potrà di nuovo conquistare la
fiducia internazionale e causarne l'intervento a suo fianco.
Abu Mazen, paradossalmente, non ha perso la sua battaglia perché si è
eccessivamente contrapposto al suo vecchio capo, ma perché ha scelto di
giocare sul suo terreno. Decidendo di perseguire un accordo con Hamas e la
Jihad islamica, ha seguitato a lasciare spazio all'opzione morale e
organizzativa del terrorismo, fino all'attacco dell'autobus numero 2 a
Gerusalemme. Sono trenta i morti per terrorismo negli ultimi due mesi:
Israele ha risposto con la politica delle eliminazioni mirate a Gaza, fino
alla cima della piramide, lo sceicco Yassin, e questo ha reso Abu Mazen un
collaborazionista e Arafat un puro leader rivoluzionario. Anche il fatto di
aver usato Muhammad Dahlan, il suo ministro della Difesa, con enorme
cautela, di averlo frenato in operazioni di polizia interna, ha fornito
spazio alla consueta proliferazione delle milizie, e alla nomina di Jibril
Rajub in contrapposizione a Dahlan come capo delle operazioni di sicurezza
per l'Olp.
Di fatto, Abu Mazen non ha usato la forza che gli era stata conferita dalla
storia straordinaria di questi mesi in Medio Oriente; la debolezza culturale
di fronte ad Arafat, la venerazione di cui il Raí ss è oggetto gli ha
impedito di perseguire l'idea che il terrorismo possa essere rifiutato dalla
lotta nazionale dei palestinesi senza indebolirla. Sharon probabilmente
avrebbe davvero potuto fare un'invenzione politica migliore di quella della
liberazione (pure importante) di centinaia di prigionieri, e della
distruzione di pochi avamposti nei Territori. Ma non si è fidato, ha visto
il gioco di stritolamento di Arafat e l'inutile divincolarsi di Abu Mazen.
Si può pensare come sarebbe stato forte un Abu Mazen davvero indignato dopo
l'esplosione dell'autobus numero 2 che lancia un messaggio allo sceicco
Yassin arrestandone qualche complice e che al contempo condanna le uccisioni
mirate e chiede a Sharon di lasciar fare a lui. Probabilmente questo avrebbe
evitato i due eventi di oggi, le dimissioni e il tentato assassinio.