L’ esplosione in un luogo simbolico: la svolta politica non ha portato il miracolo della sicurezza L’ inferno tra i grandi elettori del Falco
venerdì 9 febbraio 2001 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME
SI chiama Beit Israel, casa d'Israele, e forse non è un caso, la
parte del
quartiere di Meah Shearim dove, accartocciato e miseramente bruciato,
lo
scheletro dell'autobomba e l'urlo delle sirene delle ambulanze hanno
testimoniato ieri che l'era Sharon è già entrata nel tunnel dei
grandi
problemi. Luogo più simbolico gli attentatori non avrebbero potuto
scegliere. Meah Shearim, che in quel punto quasi si tocca con
Gerusalemme
Est, la Al Quds che Arafat vuole come sua capitale, è invece una
specie di
epitome dell'attaccamento ebraico per Gerusalemme: i suoi abitanti
sono
« haredim» , ultrareligiosi vestiti di nero in varie fogge medievali,
con
riccioli laterali; le donne portano la parrucca. Gente che ha votato
nella
totalità a favore di Sharon, andando a prendere a casa vecchi e
malati,
individui avulsi dal mondo hanno vinto per un giorno la loro
repulsione per
la modernità per gettare tutta la loro forza nell'agone politico,
alla
ricerca della magia politica che può dare « sicurezza» . Adesso,
invece, ecco
che immediatamente il rischio mortale degli attentati è venuto a
trovarli a
casa loro: Sharon non ha portato il miracolo della sicurezza. E così ,
vicino
ai resti fumanti dell'esplosione che avrebbe potuto causare una
strage,
paradossalmente si entusiasmano, ballano in cerchio cantando le lodi
di Dio,
che ha compiuto il grande miracolo di rendere quasi inoffensiva la
grande
bomba che era stata preparata per loro.
Il primo giorno di Sharon, dunque, non è stato un giorno di pace. Il
primo
ministro eletto a schiacciante maggioranza non ha trovato parole più
rassicuranti del primo ministro uscente Ehud Barak: il secondo ha
cercato,
senza riuscirci, di ritrovare i toni del comando, ha promesso
reazioni, ha
ribadito la gravità della situazione. Il primo ha collegato la
possibilità
di ripresa dei colloqui di pace alla fine della violenza, di ogni
tipo di
violenza, ha detto. Come a ricordare ad Arafat che non gli importa da
chi
venga rivendicato l'attentato (stavolta, per ora, da un gruppo
sconosciuto)
Jihad, Hamas o chiunque altro: per lui, l'unico interlocutore resta
Arafat,
l'unico responsabile l'Autonomia palestinese che all'inizio dello
scontro
ormai in corso da più di quattro mesi mise fuori delle sue carceri,
in
libertà , decine di terroristi appartenenti alle frange più estremiste
del
mondo palestinese.
Le reazioni dei palestinesi all'elezione di Sharon sono state
bifronti. Da
una parte il messaggio di congratulazioni di Arafat, cui Sharon si è
affrettato a rispondere, insieme con le dichiarazioni di Nabil Shaat:
« Speriamo di riprendere al più presto i colloqui di pace, speriamo
anche di
ricominciare da dove si erano interrotti. Sharon forse è un uomo
cambiato.
Staremo a vedere» . Dall'altra parte, però , toni terribilmente
drastici e non
solo di Hamas e del suo capo, lo sceicco Yassin, che considera
l'elezione di
Sharon un puro incitamento alla guerra contro israele con tutti i
mezzi.
Anche molti leader dei Tanzim e di Al Fatah, e l'insieme della stampa
di
Gaza, hanno raffigurato graficamente e a parole uno Sharon mostruoso
e
grondante sangue palestinese, Sharon con un'immensa bocca che divora
il
popolo oppresso. Le caricature e anche le dichiarazioni sulla
necessità di
alzare il tiro dell'Intifada, di prepararsi alla guerra sono state la
vox
populi che ha pervaso i giornali e che fa da sfondo all'attentato di
ieri
forse preparato già da tempo, forse disegnato ad hoc per l'avvento
del likud
al potere.
Sharon con questo attentato viene messo a precoce prova, anche se ha
dato
mostra di non scomporsi affatto: come Barak, deve fronteggiare
un'opinione
pubblica esasperata e spaventata, gli autobus deserti, i mercati
abbandonati, i centri acquisti, i cinema semivuoti, sorvegliati e
controllati, le strade incerte, il quartiere di Gilò e altri rioni di
Gerusalemme sotto pressione. La sua promessa di sicurezza, cosi come
la
promessa di pace di Barak, è messa a dura prova dalla realtà del
conflitto
in corso, che se la ride degli slogan e delle assicurazioni dei
politici.