L'eredità di Kafka? Un processo kafkiano
mercoledì 28 novembre 2018 Il Giornale 0 commenti
Il Giornale, 28 novembre 2018Israele, la patria degli ebrei, e la Germania in processo l'uno contro l'altro. E di lato una figura di donna, triste, anche lei parte dello scontro. Ma non si è trattato di affrontare, per una volta, il genocidio degli ebrei, i crimini della Seconda Guerra Mondiale. Il tribunale stavolta (trent'anni fa) ha dovuto deliberare per attribuire a un mondo o all'altro l'anima stessa di Kafka. A chi apparteneva la sua preziosa eredità culturale, come disboscare il doloroso intrico della cultura tedesca al suo livello sommo con l'eredità ebraica nella sua espressione più misteriosa, quasi indefinibile? E come separarla dagli interessi privati che, in maniera che è poi risultata inane, si sono frapposti allo scontro diretto? Di chi è Kafka? Degli ebrei nel cui mondo è nato e cresciuta la sua letteratura pure universale, o dei tedeschi nella cui lingua scrisse, pur essendo ceco?
In un libro di ricerca affascinante come un romanzo storico con infinita pazienza passione letteraria e anche senza parteggiare, Benjamin Balindt un giovane studioso israeliano dell' Istituto Van Leer, nel cuore verde delle colline gerosalemitane, a Talbyie, accanto alla casa del presidente, ha descritto il procedimento legale con cui il giudice della corte suprema Eliakim Rubinstein, con una sentenza di 50 pagine stabilì che l'eredità di Franz Kafka era ebraica, i suoi manoscritti, appunti, memorie possesso della Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. Il titolo del volume è, con evidente allusione al più famoso fra i libri di Kafka stesso: "L'ultimo processo di Kafka". Il libro è un'incursione nell'universale cultura di lingua tedesca degli anni subito antecedenti al nazismo. quando non si poteva immaginare che quella lingua, quella filosofia, quella cultura tedesca nel suo insieme potesse esistere senza il contributo ebraico. Questo rende tutta la vicenda una specie di ironico e tragico attraversamento della storia europea fino alla sua porta aperta verso lo Stato d'Israele, piaccia o non piaccia.
La sentenza di Rubinstein è di per sé un saggio,un trattato sul rapporto fra ebraicità e mondo tedesco, fra sionismo e Europa, una parte indispensabile della teoria della riconciliazione nel riconoscimento delle diverse appartenze, e tuttavia dell'insanabilità sostanziale dell'Olocausto. Quella cultura, in buona sostanza, che se avesse vinto avrebbe obliterato insieme agli ebrei la loro cultura, e con essi Franz Kafka. Israele ha nella difficile scelta di Rubinstein, e cioè nel racconto di Balindt, la funzione di redimere l'intera storia della cultura acquisendo il contributo ebraico nelle mura salvifiche dello Stato Ebraico. E la Germania, si legge sempre nelle carte, ha seppellito con la sua guerra di sterminio ogni aspirazione universalistica, quale che sia la sua pretesa contemporanea.
Balindt ha ricostruito tutto il percorso dei manoscritti, centinaia, finiti in una casa di Tel Aviv nelle mani di due signore, figlie della aiutante, segretaria, forse anche amante di Max Brod, l'intellettuale che portò in Israele fuggendo dalla Shoah tutti gli scritti di Kafka, e ne fece una ragione di vita. Poi, li lascio in eredità all'aiutante Esther Hoffe, un esempio di compunzione, interesse, senso del diritto.
La storia è affascinante, troppo. Max Brod era un giovane praghese piccolo e vivacissimo, ragazzo di genio, musicista, poeta, drammaturgo, ambiziosissimo, estroverso. Così è rimasto tutta la sua lunga vita (1884-1968, 80 libri). A 25 anni era in corrispondenza con Herman Hesse, Thomas e Heinrich Mann, Hugo von Hoffmannsthal, Rainer Maria Rolke e altri. Era una star del mondo letterario. E gli piacevano molto le donne. Tutto l'opposto Franz Kafka, notoriamente schivo e melanconico. Ma Brod diventa sin dalla prima gioventù il migliore amico dell'ombroso, geniale fenomeno, lo riconosce subito come tale, lo considera senza problemi un maestro e un eroe. Compiono insieme, inframezzate da conversazioni degne di due eroi della filosofia in piena crisi europea, viaggi di istruzione formidabili in giro per l'Europa, frequentano concerti e bordelli (sì, anche Kafka con Brod li frequenta). Come un Leopardi post litteram, Kafka lamenta molto tuttavia la sua incapacità sentimentale di cui Brod lo sgrida sempre, anche se avrà almeno due amori, Felice Bauer e Dora Diamant. Alla prima, di cui commenta malevolmente l'aspetto e che gli fu presentata da Brod, scrisse lettere frequentissime, lasciandoci così in possesso di parecchio materiale personale, quasi tutto collezionato da Brod e poi passato in casa della segretaria. Una parte, lo portò via in Germania la gestapo, ed è in gran parte scomparso.
Ma Kafka non voleva che i suoi scritti fossero conservati, o almeno voleva che i posteri pensassero che non voleva, così, ormai malato di tisi, consegnò tutto al suo migliore amico Brod con l'indicazione tassativa di bruciare tutto alla sua morte. Sapeva certo di aver messo tutto nelle mani meno adatte per quel compito, dice Balindt, che per scrivere il libro ha esplorato ogni possibile interstizio della vita dei due, del loro rapporto e poi del dramma successivo, quello dell'eredità letteraria.
Quando nel 1939 Max Brod saltò su un treno fuggendo da Praga occupata dai nazisti portava con se tutti i manoscritti del suo amico, e in Israele gli si dedicò furiosamente per pubblicarli, commentarli ricavarne due biografie. E alla sua morte passano nelle mani della fida, elegante e prepotente Esther Hoffe, che lo ha accompagnato per tutta la sua. Brod passava presso la sua famiglia le feste e le serate, lei disse che la considerava una figlia, e la ricompensò con il lascito meraviglioso. Tanto per descriverne il valore, Esther ricevette quasi due milioni di dollari dall'Archivio della Letteratura Tedesca di Marbach per l'acquisto del manoscritto del "Processo".
Nota la Jewish Review of Book in un articolo di Stuart Schoffman che Philip Roth noto la "livida ironia kafkiana" di vendere il manoscritto al Paese che aveva assassinato le tre sorelle di Kafka e avrebbe ammazzato anche lui se non fosse morto nel 1924 di tubercolosi a 41 anni.
Esther morì nel 2007 e i documenti rimasero stipati in casa di una delle due figlie a Tel Aviv, Eva Hoffe (morta l'agosto scorso a cento anni) in via Spinoza. Fu lei, con signorilità ma con molta determinazione giuridica e personale a rivendicare nel processo i diritti ereditari di cui alla fine fu privata senza un soldo di rimborso.
La tesi dell'archivio tedesco di Marbach (fra l'altro la città di Schiller) , naturalmente era che Kafka fosse in modo del tutto evidente un autore tedesco di lingua e di animus benchè nato e vissuto a Praga; che non aveva mai messo piede in Israele, che del sionismo non gliene importava un bel niente, che la sua statura universale doveva essere conservata mostrando rispetto per il suo contributo, appunto, alla letteratura in tedesco. La cosa fu sostenuta con decisione e con spirito combattivo: quando le cose si misero male, Marbach sarebbe anche addivenuta a un compromesso con Eva che invece fu fieramente respinto da Rubinstein.
Il testamento di Brod che rendeva Esther l'erede universale aggiungeva una clausola per cui la istruiva a depositare il materiale o nella biblioteca nazionale di Israele, o nella Libreria municipale di Tel Aviv. E mentre Brod, nella sua vita di scrittore, drammaturgo, musicista, tutto fece fuorchè prendere profitti dal lavoro dell'amico geniale, Esther aveva già venduto dei pezzi, e questo certamente influì negativamente.
Ma è l'animus quello che prevalse, la giustizia storica che si volle imprimere al giudizio. Balindt è un testimone più equilibrato persino del giudice, sente tutti, parla con tutti, capisce le ragioni di ciascuno e le descrive in un inglese meraviglioso così da fornire più affreschi culturali allo stesso tempo, in epoche e geografie diverse.
Kafka una volta disse "Che cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla neppure in comune con me stesso". Ma non era così: nelle se lettere e nei suoi diari i riferimenti all'ebraismo sono infiniti. Era molto interessato al teatro Yiddish, di cui amava la vitalità e il drammatico humour, il suo unico discorso pubblico fu proprio su questo tema; il suo contatto con la Bibbia, la Kabbala, il talmud è evidente, lo studioso religioso Gershom Sholem scrisse che il mondo di Kafka era quello della rivelazione. Kafka di fatto studiò l'ebraico con Dora, frequentò delle lezioni di Talmud, fece esercizi di scrittura ebraica computando parole inaspettate come gaon, genio, shahefet, tubercolosi (era già malato) mashin (informatore), come se si preparasse a scrivere in ebraico. Con Dora infatti fantasticarono un trasferimento romantico in Israele, dove avrebbero aperto un caffè, e lui sarebbe stato il cameriere. Ma più di questo convince la novella scritta da BRod che lo conosceva meglio di tutti nel 1925: egli si figura che un fratello di Kafka in un Moshav riveli che il genio nel suo cuore era un vero sionista,e che ha lasciato altrettante pagine in ebraico quante in tedesco.
Mashav puntò molto sulla manchevole accoglienza che Israele dedicò all'opera di Kafka, non avendone mai completato l'edizione completa, avendolo tradotto tanto lentamente da prendere in mano "il Castello" solo nel 1967... La Biblioteca nazionale di Gerusalemme, scandalosamente, non possiede l'edizione critica di Kafka completata in Germania nel 2004.
Perchè tutto questo? Ma perchè Israele, nonostante il lungo sforzo di riavvicinamento, ha un conto aperto con la lingua tedesca e con tutto quello che è tedesco in generale, anche se Kafka era un ebreo di Praga. E alla fine era indispensabile che Israele recuperasse gli scritti portati da Brod proprio per fuggire al genocidio. Li portò là al posto del suo amico, che se avesse potuto ce li avrebbe sicuramente portati lui salvando se stesso e la sua immortale letteratura. C'è qualche dubbio su questo?