L’ ELIPORTO A UN PASSO DALLA VILLA IN CUI IL RAÍ SS VIVE, LAVORA E RI CEVE GLI OSPITI STRANIERI I quartieri alti della capitale della miseria Co lpito un simbolo del potere del presidente palestinese
martedì 4 dicembre 2001 La Stampa 0 commenti
                
Fiamma Nirenstein 
GERUSALEMME 
Quattro e mezzo del pomeriggio a Gaza, nella luce della zona in cui 
la 
regalità dell'azzurro del mare si mescola alla miseria di una delle 
zone più 
agitate del mondo. Il quartiere di Rimal è il migliore della città , 
ancora 
porta i buoni segni del processo di pace; poco lontano c'è l'albergo 
Windmill vicino al mare; le strade sono asfaltate, nonostante il nome 
del 
quartiere significhi « polvere» in arabo. Polvere e sabbia, la nuvola 
che 
sempre avvolge la povertà di Gaza. Ma qui le case, in una città dove 
le 
abitazioni sono in genere basse e rovinate, spiccano per essere in 
gran 
parte alte, edifici moderni. Tutto segnala che dietro i cancelli che 
segnano 
il compound chiuso e ben custodito, fra i suoi armati vive e lavora 
Arafat. 
E' il quartiere regale, e qualche bouganvillea segnala una certa 
festosità 
ai frequenti ospiti internazionali, ai vip di ogni Paese che sempre 
giungono 
in visita da « Abu Ammar» . 
D'un tratto, nel cielo ancora luminoso, appaiono i quattro Apache 
israeliani, piccoli e neri, terribilmente decisi, puntano senza 
esitazione 
sulla villa e sull'eliporto di Arafat. Non sparano sulla sua 
abitazione, due 
piani molto eleganti con un giardino dove c'è posto anche per 
l'altalena e 
la montagnola di sabbia per gli amici della figlia; non si soffermano 
a 
mirare alla zona dove in genere si viene accuratamente frugati per 
poi 
essere ammessi salendo una scala, in un bel salone di marmi e 
tappeti. Gli 
Apache puntano con rumore assordante e sparando razzi sull'edificio 
di Forza 
17, la guardia personale di Arafat, e sui due hangar bianchi che 
proteggono 
i suoi elicotteri. Due vengono distrutti completamente, ci sono urla 
e 
feriti, e il panico si sparge quando il fuoco israeliano fa esplodere 
le 
riserve di benzina. Nel quartiere circostante, mentre gli armati di 
Arafat 
sparano invano verso il cielo, mentre arrivano i pompieri e le 
ambulanze con 
le sirene spiegate, la gente è terrorizzata. E' l'ora di punta, la 
fine 
della giornata lavorativa e scolastica, ed è anche l'ora in cui 
finalmente 
si conclude la giornata di digiuno del Ramadan in corso: è passato 
molto 
tempo dall'ultima incursione israeliana, e adesso la gente corre 
impaurita 
da ogni parte. Gli uomini di Arafat gridano e sparano, la gente viene 
invitata a non muoversi da casa. 
Le reazioni sono in parte furiose, nella non lontana università 
islamica di 
certo Hamas vede nell'attacco un ulteriore motivo per preparare altri 
terroristi suicidi; gli uomini di Arafat dichiarano ai giornalisti 
che 
Sharon ha dato un segnale di voler continuare il ciclo della 
violenza. Ma 
soprattutto, nella Gaza combattente e nella Gaza della gente comune 
c'è 
ormai, oltre all'odio per il nemico israeliano, anche la sensazione 
che 
qualcosa di terribile, di imprevisto e stupefacente stia accadendo: 
l'Intifada da una guerra di popolo si sta trasformando in una guerra 
di 
terroristi suicidi, e la simpatia del mondo per la causa palestinese 
passa 
dure prove. E Arafat, che adesso si trova a Ramallah ed è lontano, 
dichiara 
che tutto il suo popolo subisce l'umiliazione di vedere la casa del 
suo 
Presidente violata. 
Intanto, Arafat dichiara che non cesserà dagli arresti dei 
terroristi. Non è 
facile capire dove sta guidando il suo popolo. L'attacco agli 
elicotteri non 
è uno dei più terribili che Gaza abbia subito, ma la paura è grande, 
metafisica. Il Raí ss stesso è minacciato, c'è scompiglio fra la sua 
gente, i 
begli elicotteri che si levano in volo per portare il « Signor 
Palestina» in 
visita da Mubarak, da re Abdallah, alle conferenze in cui tutto il 
mondo gli 
dichiara la sua simpatia, non volano, in questi giorni. E gli arresti 
con la 
pacca sulla spalla di queste ore, a uomini di secondo e terzo piano, 
a 
vivandieri e personaggi addetti alla logistica, come dicono gli 
esperti, non 
hanno convinto Israele e quel che è peggio neppure gli americani, che 
fino 
ad ora per bocca di Bush avevano invocato lo Stato palestinese ben 
tre volte 
in un mese. 
            