L’ebraico è la lingua della nostra libertà
lunedì 26 maggio 2008 Diario di Shalom 6 commenti
Lavoriamo tutti insieme per partecipare al grande destino di Israele, prendendo esempio dalle grandi figure eroiche della sua storiaQualche giorno fa, mentre mi trovavo a Genova, città bella e a me fino a poco tempo fa piuttosto sconosciuta, ho notato un ragazzo nella hall del mio albergo. Era accovacciato per terra sulla sua valigia in cui frugava un pò alla cieca, i piccoli riccioli laterali contornavano la sua faccia allegra; non l’avevo mai visto prima ma subito mi sono rivolta a lui in ebraico e gli ho chiesto se veniva da Eretz Israel, da casa. Si, veniva da là, stava cercando fra le sue cose, da cui spuntavano libri e calzini, qualche scatoletta di cibo casher che si si era portato dietro nel viaggio in Italia. Abbiamo parlato in ebraico per qualche minuto, gli ho spiegato dove abito a Gerusalemme, e la sua attenzione ci ha trasportato nel paesaggio della nostra anima: Jerushalaim. Mi sono sentita così fortunata a vivere nei nostri tempi: anche i nostri padri avevano la possibilità di incontrare durante un viaggio un altro ebreo capace di parlare ebraico, ma essa non era allora la lingua della libertà, anzi, semmai comunicava sofferenza, nostalgia, persecuzioni. E invece oggi, da quando esiste lo Stato d’Israele, è la lingua della gioia, dell’identità che ha trovato una patria. Perchè come disse Shai Agnon, che era nato in Galizia nel 1988, ricevendo il premio Nobel per la letteratura: “Ho sempre sentito di essere un vero nativo di Gerusalemme”. Così sentono tutti gli ebrei.
Sorridendo a quel ragazzo e chiedendogli notizie sul suo viaggio, mi sono venuti in mente i tanti viaggi del mondo dove ogni tanto capita di approdare sulla terra ferma della lingua ebraica, sia che si tratti di amici che di sconosciuti: shalom, ma shlomcha... e sei te stesso, sei a casa; hai un amico, sei solidale nel desiderio del bene comune, quello di Israele. Sei nella casa della Bibbia, della libertà, della passione della democrazia e dei diritti umani. Sei nella casa che nonostante la guerra che dal 1948 perseguita Israele istitutita nella piena legalità internazionale nel novembre dell’anno precedente, vive nel rispetto delle leggi, onora le minoranze, punisce il razzismo, verifica ogni azione dell’esercito che redarguisce e punisce se esse non sono perfettamente aderenti all’etica della convenzione di Ginevra, persino se i tempi ormai hanno trasfomato l’odio arabo originale nella jihad che, senza peritarsi della sorte di donne e bambini, usa i civili come scudi umani.
Sei, dunque, essendo un ebreo di questo secolo, un ebreo fortunato, l’ebreo più fortunato del mondo, perchè vivi nell’era in cui esiste il tuo Stato, quello in cui nonostante la guerra si è sviluppata dalle antiche rovine del nostro popolo sparso dal 70 dopo Cristo ai quattro angoli del mondo non solo l’unica democrazia del Medio Oriente, ma la democrazia più appassionatamente convinta di dovere essere tale per un motivo insito nella sua natura: la libertà in essa contenuta è l’unica identità politica possibile del popolo che l’ha inventata, il nostro.
Abbiamo tanti eroi che possano ispirare la nostra vita, e questa è un’altra fortuna meravigliosa in tempi che cercano disperatamente modelli morali per i nostri figli senza trovarli, dopo aver così lungamente e stoltamente dichiarato che è beato il tempo che non ha bisogno di eroi. Se si pensa a David Ben Gurion o a Moshe Dayan o a Ytzchack Rabin o a Ariel Sharon, alla nostra memoria storica appaiono vicende in cui la sofferenza si coniuga al successo dell’obbiettivo perseguito con tanto sforzo. Sono significative le pagine che raccontano dell’infanzia sia di Rabin che di Sharon, la madre di Rabin che nel bonificare con le priopre mani le paludi di Hule si ammalò mortalmente di malaria; la casa, anzi la capanna, di Sharon in cui la zappa era posata vicina ai libri e agli strumenti musicali, la fame regnava e i topi correvano sulle travi che Arik piccolo guardava dal letto, col viso volto al soffitto. Penso ad Arik che difende Israele dall’attacco egiziano nel 1973 guidando i carri armati in una manovra di aggiramento che salvò il suo paese, ricordo la sua foto con la fronte bendata e sanguinante, e ricordo anche l’umanissimo esaurimento nervoso di Rabin, già eroe di varie guerre, che tuttavia lo rinchiuse per giorni in casa solo con una catena di sigarette mentre doveva decidere delle sorti di tanti dei suoi soldati. E’ bella la passione per la pace di questi guerrirei: Dayan che chiede su Gerusalemme appena conquistata nel ‘67 “Che ce ne facciamo di tutto questo Vaticano?”; Rabin che con il corpo che parla il linguaggio del ritegno e del dubbio stringe tuttavia la mano di Arafat sul prato della Casa Bianca; Sharon che accetta il biasimo dei settler di Gaza che erano tanto vicini al suo cuore per sradicarli allo scopo di tentare un’ennesima mossa di pace, purtroppo di nuovo fallita miseramente, nei confronti dei palestinesi.
Ma il mio eroe preferito però è il durissimo, dolcissimo, folle realista Eliezer Ben Yehuda, che immagino prima gracilissimo nel suo villaggio in Lituania, penso al bambino che si mantiene da solo agli studi presso un rabbi che gli insegna per primo a usare l’ebraico per parlare della vita quotidiana oltre che della Bibbia, lo immagino malato di tisi nella sua casa di Gerusalemme in rehov Etiopia dove si fa la fame e si parla solo ebraico, tanto che il primo dei suoi bambini cresce quasi completamente isolato nel giardino per non essere esposto ad altra lingua che a quella che ancora solo un’esigua minoranza parla. Fatiche immani, delusioni condivise dalla prima e dalla seconda moglie, Deborah e Pola, dagli unidici bambini che lo accompagnano nell’incredibile avventura di ricreare una lingua che oggi ci consente, sulla base della Bibbia, di parlare come il nostro padre Abramo, costruendo una frase in cui si parla di televisione, di computer, di automobili. L’opera meravigliosa di Ben Eliezer costruisce sul piano concettuale, rimettendo insieme i lembi di una lingua poetica, sintetica, profondamente umana oltre che capace di concettualizzazioni supreme, quello che la Dichiarazione Balfour e poi la risoluzione dell’ONU costruiscono sul piano della legittimità delle ambizioni ebriche a una patria. Penso a quando Ben Yehuda si recò in visita a Rishon le Tzion, appena fondata dai suoi seguaci, dove si parlava solo ebraico e dove non c’era ancora acqua da bere, e gli venne offerto per dissetarsi un pò di vino donato dai vicini.
Noi ebrei fortunati del giorno d’oggi abbiamo alle nostre spalle uno Stato che non lascerà mai più che la nostra stirpe sia sterminata, ne a Roma nè in Russia nè in nessuna altra parte del mondo nonostante le minacce che di questi tempi si sono fatte più acute sulla cresta dell’ondata intergralista islamica; godiamo delle magnifiche invenzioni di una scienza all’avanguardia, dalla medicina all’agricoltura; dell’arte che fiorisce in ogni suo ramo; dell’economia che resta rampante soprattutto per merito dell’high tech, in cui menti giovani se ne escono con soluzioni inusitate e poi acquistate dai Paesi più avanzati; con una filantropia nei confronti dei disabili che non ha paragoni.
Ma la nostra festa della libertà per il sessantesimo di Israele, come un seder, ci presenta anche il suo maror, la sua erba amara: essa è costituita dall’odio pregiudiziale che si traduce in informazione distorta e in scientifica diffamazione carica di menzogne, nell’incomprensione talora demenziale, come nei confronti del recinto di difesa, che nega a Israele il diritto di difendersi; nella negazione della Shoah, che si rovescia nel mostruoso rovesciamento delle responsabilità che accusa di nazismo Israele; nell’attribuzione all’occupazione di problemi umanitari di cui sono soprattutto responsabili le irresponsabili politiche dei palestinesi, che hanno sempre rifiutato le molteplici offerte di pace e l’evidente vantaggiosa prospettiva di due stati per due popoli, a fronte del quale moltissimi nel campo arabo preferiscono il sogno della distruzione di Israele. Le minacce hanno oggi denti che somigliano a zanne, contenuti in termini di armi e di denaro senza precedenti.
In questo quadro di gioia e di preoccupazioni il nostro compito è importante quanto evidente: difendere sempre Israele, elevare il nostro livello di attenzione e di impegno quanto più il Paese ne ha bisogno, per fare la pace o, solo se gli verrà imposto, per fare la guerra. E intanto, creando una comune di menti creative: dunque impariamo l’ebraico.
Shalom, maggio 2008
lunedì 9 giugno 2008 22:07:53
E invece il rischio di essere ancora sterminati/e c'è, in Israele c'è ogni giorno, per ogni soldato/a e per ogni civile e la colpa è sicuramente dei guerrafondai e delle guerrafondaie arabi/e che hanno attaccato da subito Israele e che vorrebbero distruggerlo, ma anche dei guerrafondai e delle guerrafondaie israeliane (come te) che si sono esaltate nella vittoria e si esaltano nella guerra dimenticando che la guerra giusta è una triste necessità il resto è barbarie, crudeltà, omicidio, di bambini e bambine, di civili inermi, di soldati e soldatesse che sono le nostre figlie e i nostri figli... ci sono stati troppi morti in questi 60 anni di Israele (che Dio li benedica) tu parli di eroi come quel canto di David in morte di Jonathan e Saul, il canto degli eroi morti... allora ecco credo che l'ebraismo ci insegni come sia più giusto piangere nella casa in lutto che esaltarsi nella casa degli stolti che ridono...ridere e gioire dei morti? perché qui ci sono i morti, le morte, uomini, donne, ragazzi e ragazze bambini e bambine... è per questo che bisogna parlare di pace, che gli eroi e le eroine devono essere quelli che hanno perso la vita, che hanno perso tutto, che hanno perso e non i vincitori...io non so le biografie di Sharon o di Rabin o di Dayan, sono contenta che ci sia stato qualcuno che ha difeso Israele quando gli arabi pensavano di schiacciarlo come un insetto indifeso, ma dubito che questi generali o capi d'eserciti abbiano fatto tutto da soli, credo che ci siano stati soldati e soldatesse più eroiche di loro che hanno raccolto denari ed allori tutta la vita, immagino che qualcuno/a di queste/i sia tornata/o a lavorare in un kibuz, immagino che alcuni/e di questi/e soldati/e siano tornati a casa e abbiano allevato i figli e le figlie parlando loro di pace.Questi/e gli/le eroi che con singhiozzi di bambini/e piangono la propria morte,che avrebbero voluto vivere in un paese di pace e invece hanno trovato odio,guerra,giornalisti corrotti pagati per fomentarle.
Barbieri Stefano , Modena
martedì 3 giugno 2008 20:27:19
Evenu Shalom Aleichem ! Mazel tov !Conosco ancora poche parole in ebraico,ma prima o poi comincerò a studiarlo seriamente. Ma anche lo yiddish , benchè non abbia grammatica, è una lingua molto interessante, spazzata via quasi interamente dalla barbarie nazista. Che peccato ...
cossunicola , siena italia
domenica 1 giugno 2008 19:29:53
Bereschit...credo si dica così. In principio... è stato l'ebraico. E' la nostra prima lingua. Anche per noi cattolici. Hai ragione. Studiarla come tenta D'Elia è un'impresa che gli fa onore. Ho tentato anch'io ma riesco solo a leggere e tradurre le parole. La memoria...serve anche per le cose che ami. E non è una lingua ma un rito, uno scrigno di segreti aperto a tutti. A tutti coloro che tentano di aprirlo.Indispensabile per noi cattolici visto che... siamo e restiamo storicamente... una setta ebraica.
Enzo , Provincia di Bari
mercoledì 28 maggio 2008 18:15:43
Io sono Cattolico, ma sento molto forte l'affetto e la stima per il popolo d'Israele, il popolo del Dio di Abramo, il popolo della Bibbia...ci sono stato ad ottobre 2006 con mia moglie e da allora questo Paese mi è rimasto nel cuore!Spero di tornarci presto.Auguri Israele. Shalom!!!
Sergio , Israele
mercoledì 28 maggio 2008 06:45:33
Elia ha capito una cosa importantissima: quel saluto, che vuol dire "pace", è anche un segno di rispetto reciproco.Il sorriso che provochi nel viso di coloro che saluti in quel modo è la risposta aperta alla trua apertura, alla tua offerta di pace.
Francesco d'Elia , Roma - Italia
martedì 27 maggio 2008 09:35:45
Sinceramente ci sto provando, ad imparare l'ebraico ma è davvero difficile.. Non lo capisco ancora però capisco, quando lo sento parlare, che quelle persone stanno parlando ebraico ed allora gli rivolgo un saluto con una delle poche parole che so "Shalom", e li vedo illuminarsi in volto forse perchè improvvisamente, attraverso una sola parola, si sentono meno soli..