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L’ASSEDIO È FINITO Il trionfo del dolore puro L’Olocausto è passato a lla Storia

giovedì 7 aprile 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV NONOSTANTE l’attentato di ieri, oggi forse sarà la prima volta nella storia di Israele in cui i cittadini potranno piangere l’Olocausto a cuore aperto, finalmente immersi nel puro dolore: le limpide reazioni di sconforto di fronte alle bombe di Afula e a questi nuovi ma consueti morti ci fanno vedere un’Israele diversa, che non reagisce con la sindrome dell’accerchiamento e che sottolinea le differenze presenti nel mondo arabo e che marcia decisa sulla strada del processo di pace. Ieri, 6 di aprile, è iniziato “Yom Ha Shoa”, giorno di memoria dell’Olocausto; come al solito a mezzogiorno di oggi si immobilizzano per alcuni minuti uomini, donne e bambini nelle strade, negli uffici, nelle scuole. Idealmente le schiere dei 6 milioni di morti invaderanno le strade di Tel Aviv e di Gerusalemme, completamente silenziose salvo che per l’urlo roco di una sirena. La popolazione trattiene, ferma, il respiro, il traffico immobile sarà una pure immagine di dolore, un anello della catena della memoria, e basta. Ma per la prima volta da quando, nel 1948, in questa stagione, fu fondato lo Stato d’Israele, Yom Ha Shoa sarà vissuto da uomini che si preparano o che comunque sperano di abbandonare concretamente l’identità di un popolo assediato dai nemici per avviarsi alla normalità , alla pace. Questa è , pur fra mille contraddizioni, la nuova identità di Israele: quella di un Paese che, non suoni blasfemo, vuole infine collocare la Shoa nel passato e non nel suo presente politico. Lo sterminio nazista per Israele è sempre stato materia controversa. Magro, profetico, nodoso, Menahem Begin, e leonino, socialista, prepotente David Ben Gurion, sono stati due grandi interpreti di concezioni diametralmente opposte. Begin tentò di fare dell’Olocausto una sorta di dogma religioso-politico. La lezione della storia, secondo lui, doveva guidare lo Stato d’Israele e divenirne l’ideologia politica: così il linguaggio del conflitto arabo-israeliano divenne (e tuttora in parte è ) quello dello scontro fra gli ebrei e una forza sempre pronta ad annientare, ad annichilire il popolo ebraico, a sterminarlo tutto intero proprio come voleva fare Hitler. Moshe Dayan diceva nel ‘67: “Richiamo la distruzione del Terzo Tempio”. Golda Meir nel ‘72 disse: “Siamo giunti al Giorno del Giudizio”. Oggi i coloni si mettono al braccio la stella gialla per significare la loro condizione di ebrei perseguitati dallo Stato stesso d’Israele o dagli arabi, comunque sull’orlo dello sterminio. Le guerre in corso, secondo l’ideologia di Begin, sono sempre state considerate definitive; il pericolo, un pericolo d’annientamento. Ben Gurion ebbe invece la grande intuizione di vedere Israele come una sponda vitale per gli ebrei, e anche se sempre pronta a difendersi, lontana dai pericoli di un nuovo sterminio: col suo pragmatismo un po’ cinico trattò con la Germania la ripresa dei rapporti commerciali e diplomatici; e con determinazione mise persino in piedi l’opzione atomica, in modo da porsi concretamente al riparo da pericoli per la vita dello Stato. Dopo l’accordo di pace fra Rabin e Arafat, il giorno dello Shoa può essere vissuto finalmente in Israele come una memoria da soffrire sì disperatamente, ma non da vivere nel presente. I problemi della sicurezza sono enormi, l’esercito si ritira da Gaza e Gerico in questi giorni, la nuova polizia palestinese dovrà difendere i suoi dall’integralismo islamico degli estremisti e dai “settler” israeliani. Dovrà però anche difendere i coloni ebrei dai palestinesi. Al contempo, Israele avrà gli stessi problemi riflessi in uno specchio. Infatti gli si prepara un fronte interno sempre più infuocato, e Rabin pragmaticamente, come fece Ben Gurion, sembra accorgersene e darne conto. Alla grande festa della “Mimouna”, un grande incontro primaverile all’aperto degli ebrei orientali, Ytzhah Rabin ha parlato non più dell’accerchiamento che Israele subisce, ma dei pericoli che possono venire a Israele dal nuovo “khomeinismo” che soffia in Medio Oriente. Khomeinismo ebraico, non mussulmano. Lunghe barbe, abiti scuri, riccioli laterali in questi giorni preoccupano il primo ministro quanto i problemi di sicurezza dello Stato; anzi, sono diventati tali. I tre rabbini capo d’Israele hanno intimato ai soldati dell’esercito, cuore del popolo, indiscutibile sua rocca, di disubbidire nel caso venga loro ordinato di sgombrare gli ebrei che risiedono a Hebron. Uno scandalo insostenibile dalla coscienza israeliana, che ha sempre cercato di smussare gli eventuali scontri fra autorità civile e religiosa. Però , gli affannosi successivi scandagli di opinione pubblica danno circa l’80 per cento della popolazione assolutamente contraria a mettersi alla mercè delle valutazioni politiche del rabbinato. Cosicché i rabbini hanno cautamente receduto. Intanto poco lontano, a Yehud, un certo rabbino sefardita di nome Uzi Meshulam ha messo in piedi ed eccitato alquanto una setta proletaria, armata e infuriata contro lo Stato. Nei giorni scorsi i fedeli del rabbino hanno ingaggiato una battaglia con la polizia e l’esercito dopo essersi asserragliati nella casa del loro capo. Al termine la polizia è stata costretta a trattare con il rabbino una serie di punti, tra cui la riapertura di un’antica inchiesta sulla sparizione di bambini sefarditi, l’immunità del guru e dei suoi seguaci. I fedeli del guru si fanno vedere volentieri mentre si inginocchiano davanti al loro capo, mentre assalgono proditoriamente poliziotti arrivando persino a dar loro fuoco, mentre cantilenando si agitano dando tutti i segni di quella coesione pazzoide che porta ai suicidi collettivi o alle stragi americane di questi anni. Niente a che fare con l’ebraismo tradizionale. Infine, e a ben altro livello religioso tuttavia, i seguaci del Rebbe Lubavitcher, che sta morendo in una clinica newyorchese ed è tenuto in vita ormai artificialmente (seguaci che qui ammontano a qualche decina di migliaia), ogni giorno ripetono la loro convinzione assoluta che Rebbe non morirà , che non può morire perché è nientemeno che il Messia. Dunque una certa follia di pace invade Israele: troppo grande è la difficoltà di affrontare questo difficile momento, e alcuni reagiscono in maniera irata e aggressiva, altri in maniera sognante e tuttavia altrettanto conturbante per l’ebraismo laico tipico dello Stato d’Israele. Ma la storia tesse una sua inquietante razionalità , stavolta in un modo che sarebbe piaciuto assai a Giambattista Vico. Il 12 aprile, di sera, iniziano in Israele tre giorni di celebrazioni: il primo è “Yom Ha Zikaron”, giorno del ricordo dei caduti in battaglia; al secondo giorno la gioiosa celebrazione della fondazione dello Stato: vi saranno canti, parate, fuochi di gioia in tutto il Paese. È il 46[ anniversario della nascita di Israele. Vuole il destino che per quello stesso giorno sia fissata la partenza dell’ultimo soldato israeliano da Gaza e da Gerico: cioè il primo giorno dei palestinesi soli su un pezzo di terra completamene loro, autonoma. Questa strana coincidenza sembra così significativa della volontà della storia che appare ormai evidente che, per quanto controversa e dolorosa, la strada segnata è quella della comprensione dei due popoli. Fiamma Nirenstein

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