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ISRAELE, LA LEGGE DEL RITORNO SE S’INFRANGE LO SCRIGNO DEL SIONISMO

mercoledì 5 ottobre 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME MARY Brown, di New York, è molto anzia- na ed è affetta ormai da una paralisi progressiva. Suo figlio vive in California, sua figlia in Florida. Nessuno vuol prendersi cura di lei. Va dal più vicino rabbino riformato, in due mesi si fa ebrea. Prende l’aereo per Tel Aviv, sbarcando dichiara la sua religione, mostra il certificato. Viene subito accolta. Lo Stato d’Israele, secondo la Legge del Ritorno, ha il dovere di farne immediatamente una cittadina con diritto a tutte le cure gratuite, a una casa, all’assistenza, alla pensione d’invalidità . Ivan Ivanovic, di San Pietroburgo, se la passa male, è disoccupato, non crede più in un futuro in Russia. Ha saputo che, nonostante i suoi genitori e tre dei suoi nonni fossero, come lui, dei devoti ortodossi, tuttavia una sua nonna era ebrea. Si fa aiutare nelle pratiche dal comitato locale dell’Agenzia Ebraica. Presto, lui, la moglie, quattro bambini e una zia di 85 anni arriveranno all’aeroporto Ben Gurion e usufruiranno, sempre secondo la Legge del Ritorno, di un nuovo appartamento, sussidi, aiuti, fiori all’aeroporto. Tutto l’apparato sionista verrà mobilitato e lo festeggerà : un altro ebreo è tornato alla sua Nazione, ha compiuto la sua aliah, il ritorno alla Terra Promessa. Ma ad un tratto è giunta la colomba bianco-grigia della pace e della tanto sospirata normalità : già da tempo svolazzava su Israele, già se ne parlava dopo la marea dell’immigrazione russa, in questa terra ormai baciata dalla speranza, dove si comincia a sentire più bisogno di merci che di solidarietà o di compagni su una strada accidentata. E dalle chiacchiere nelle botteghe si è passati alle dichiarazioni politiche. Il ministro dell’Assistenza, Ora Namir, ha detto, in sostanza: sessant’anni; un terzo sono handicappati, un terzo, sono madri sole con bambini piccoli. Il sionismo è diventato uno strano affare: invece di veder giungere giovani desiderosi di aiutare, di essere parte di un popolo, di ebrei o presunti tali, perché molti non lo sono, ora che in Israele stiamo meglio, abusano del nostro aiuto per scaricarci i loro fardelli. E noi israeliani, con il lavoro di tutta una vita, paghiamo le altrui case, pensioni, ospedali. Le nostre risorse vengono mangiate cinicamente. Occorre essere più selettivi. Ora Namir ha detto una cosa che molti pensano, o, meglio, che si è osmoticamente inoculata nella società israeliana attraverso la sensazione di innocente inerzia, di autosoddisfacimento che giunge dai teleschermi e dalle pagine di giornali sempre più cariche dei sorrisi degli antichi nemici (Arafat, Assad di Siria, re Hussein) e della voglia di facezie, di piaceri, di oblio che è il comma della pace. ogni illusione che tutti gli ebrei del mondo possano convenire in Israele. E non sarebbe neppure desiderabile. Esistono ormai due poli nel mondo ebraico, ed è chiaro a tutti: Israele e la Diaspora. Israele deve mantenere una totale libertà d’immigrazione, certo, ma non ne deve portare il carico. La Legge del Ritorno nella coscienza collettiva d’Israele è né più , né meno che la giustificazione stessa storico-politica e soprattutto morale dell’esistenza dello Stato d’Israele, la sua ragion d’essere. Quando nel 1948 fu fondato lo Stato degli ebrei, esso compì contemporaneamente un gesto di egoismo, come quello di ogni nazione allorquando si definisce e si conchiude; e di altruismo inedito, rinunciando a una parte della sua sovranità nazionale, appunto, con la promessa di essere uno Stato non solo dei suoi abitanti, ma di tutti gli ebrei del mondo. In parole brutali ma chiare, il principio è questo: se sei abbastanza ebreo da essere stato o da poter essere perseguitato per questo, ovvero: se hai un’ascendenza ebraica o se ti sei convertito, allora lo sei abbastanza da poter essere accolto come cittadino d’Israele. Con questa legge, Israele ammetteva un altro principio basilare per la sua definizione, ovvero che era nato a seguito di una ragione di primaria necessità e che, se la sua nascita aveva infranto dei limiti morali con scontri violenti e spostamenti di popolazioni arabe, ciò non significava che la radice della violenza veniva rivendicata dagli ebrei. Al contrario, Israele voleva riparare alla sua nascita violenta con un atteggiamento che possiamo definire, appunto, moralmente motivato dall’idea che lo Stato d’Israele non appartiene soltanto ai suoi cittadini, ma agli ebrei di tutto il mondo. Si capisce bene come, di fronte al consesso internazionale intero, questa specialità d’Israele abbia costituito un continuo puzzle, un memento, un modello etico per quanto tante volte contraddetto dalle vicende storiche e dallo scontro israelo-palestinese. La solidarietà , il rischio, l’etica laica, il senso del destino, la misteriosità stessa della continuità del popolo ebraico, sono stati dal ‘48 a oggi tutti contenuti nello scrigno del sionismo. È difficile, quindi, immaginare come possa giocare sul destino non solo d’Israele, ma di tutti gli ebrei del mondo, la chiusura o anche la selettività delle frontiere. Possiamo pensare a un assedio degli ebrei del mondo a Israele pari a quello dei poveri del mondo alle frontiere dei Paesi affluenti? Certo, la storia è davvero ironica: lo Stato d’Israele in tempo di pace può dividere per sempre il popolo d’Israele. Fiamma Nirenstein

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