ISRAELE, LA FORZA E LA DEBOLEZZA DEMOCRAZIA IN GUERRA
sabato 11 gennaio 2003 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
ISRAELE, l'unico Paese democratico dell'area, è sull'orlo delle
elezioni,
ma anche sull'orlo di una probabile guerra che in un modo o
nell'altro lo
investirà sicuramente, e persino nel pieno di uno scontro in cui gli
attentati terroristici hanno un carattere catastrofico e continuo.
Eppure il
paese democratico applica il rule of law come pochissimi. La Corte
Suprema
ha riammesso alla gara elettorale tre candidati, due arabi e un
ebreo, che
erano stati esclusi perché sospettati di minacciare lo Stato ebraico,
di
razzismo e di essere a favore della lotta armata: la materia delle
accuse è
stata ascritta al diritto di esercitare la libertà di opinione. Non
finisce
qui: un giudice della Corte Suprema, Michael Cheshin, ha
tranquillamente
interrotto la diretta tv (lungamente richiesta dai media) del primo
ministro
con l'accusa di farsi propaganda fuori degli spot programmati. Sharon
si
difendeva veementemente dalle accuse di aver preso un enorme prestito
impropriamente. Una conferma della vocazione democratica di Israele,
uno
sberleffo alle accuse di essere « uno Stato di apartheid» , come
ripetono i
palestinesi e come echeggia la propaganda antisemita inaugurata a
Durban due
anni fa. Israele è solo uno Stato in guerra, e qui sta il secondo
punto.
Sharon, che era il candidato strafavorito per le elezioni del 28
gennaio,
cala a vista nel consenso pubblico, e cresce Mitzna, il suo rivale di
sinistra, che promette la pace con un programma sostanzialmente
identico a
quello di Camp David, rifiutato da Arafat. La democrazia israeliana
dà buona
prova, il pubblico è mobile come si conviene, la magistratura è
imparziale,
i giudici ferrei, la stampa feroce con i potenti. Chi se ne rallegra,
certo
vuole il bene di Israele e della pace in generale: ma il primo punto
per
dimostrarlo è guardare alle prossime elezioni senza logica di
schieramento
alcuna, senza quel nobile acting out psicologico in cui si rischia di
dimenticare i pericoli che corre lo Stato ebraico, anche se magari
vince
Mitzna invece di Sharon.
Sul risultato elettorale si giocano questioni di vita e di morte; non
è
affatto chiaro, se non per placarsi la coscienza, che oggi come oggi,
fermo
restando l'orizzonte di due popoli per due Stati, una linea remissiva
sia
quella giusta. Israele con i suoi bravi giudici e i suoi sospetti di
corruzione è in questi giorni un luogo meno lontano, meno sull’ orlo
dell'abisso: eppure l'Iraq è dietro l'angolo, quattro giorni or sono
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persone sono morte in un attacco suicida, gli Hezbollah incombono.
Tanto
più , dunque, ci rallegriamo dell'applicazione della legge; ma chi
apprezza
Israele in quanto unica democrazia mediorientale, capisce anche che
una
crisi politica come questa in piena campagna elettorale conferma
all’ estremismo arabo l'idea che Israele sia debole. La gravità dei
problemi
travalica gli schieramenti tant'è vero che Sharon promette « penose
concessioni» e uno Stato Palestinese, e Mitzna promette di difendere
Israele
con il fuoco, se del caso.
Una buona magistratura è una grande gioia democratica, ma Israele fa
il
funambolo fra una miriade di satrapie collegate con il terrorismo. Le
elezioni dovrebbero mandare al governo semplicemente chi sa misurarsi
con
questo problema: come mantenere la democrazia combattendo per la
propria
sopravvivenza. Dopo gli applausi alle dimostrazioni di virtuosismo
sul primo
tema, cerchiamo di tifare per la risoluzione del secondo. Altrimenti,
non
vale.