Israele, il gioco torbido del voto e della pace Una campagna eletto rale all’ insegna dei colpi bassi
domenica 28 gennaio 2001 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
NON c'è mai stata, in Israele, campagna elettorale più triste. Due
leader
senza speranze si fronteggiano: Ehud Barak si è appeso al viso una
maschera
pallida e stanca che seguita a sorridere incongruamente. Ma non è il
solito
sorriso virile, di coraggio, dell'ex capo di Stato Maggiore che, dopo
essere
stato un eroe a Entebbe o sull'aereo della Sabena, offre il suo corpo
alla
pace. E' ormai il sorriso di un San Sebastiano martirizzato dai
nemici e
anche dagli amici per non aver saputo concludere ciò che aveva
promesso, la
pace. Il biasimo della gente, a poco più di una settimana dal voto,
lo
punisce con venti punti di scarto rispetto a Sharon.
Sharon a sua volta indossa una maschera: la sua voce non si alza mai,
i suoi
sguardi e le sue espressioni, strani in un uomo che ha un volto
determinato,
sono tutti tesi a cancellare l'immagine del « falco» , l'appellativo
con cui
sempre la stampa accompagna il suo nome. Anche la sua promessa di
pace è ,
non molto diversamente da quella di Barak, una promessa che nessun
uomo
politico israeliano, in una temperie come questa, potrebbe fare senza
risultare vano. La pace non verrà , diremo parafrasando la canzone
israeliana: « Il Messia non viene, e non telefona neppure» . La pace dà
pochi
segnali.
I due uomini che si fronteggiano avevano promesso di incrociare i
ferri
senza diffamarsi: la promessa era congrua con i tempi che corrono, in
cui si
parla e si riparla di unità nazionale di fronte a un Medio Oriente
molto
infiammato. Ma la cortesia è stata breve, e solo formale: il campo di
Barak
ha preso a trattare Sharon da « criminale di guerra» e a ricordare
continuamente la vicenda di Sabra e Shatila. Sharon, senza mai dire
la
parola personalmente, ma lasciando che circolasse ampiamente fra i
suoi, ha
fatto di Barak un « traditore» , e anche un « pazzo» che di fronte alla
crescente aggressività palestinese non trova di meglio che seguitare
a
porgere fette di Israele. I religiosi di Shas a loro volta hanno
preso un
ruolo starnazzante, anche perché sentono di doversi conquistare
ancora la
fiducia del candidato di destra Sharon, un laico impenitente che ha
addirittura consentito alle cantanti donne di intonare l'inno « Sharon
porterà la pace» al suo meeting. Così il rabbino Ovadia Yossef ha
definito
Barak « uno che odia Israele e gli ebrei, uno che vende tutto pur di
mantenersi il posto» .
La campagna elettorale di Barak è un po' spasmodicamente protesa alla
rapida
firma di un accordo con i palestinesi, a un trattato dell'ultima ora
che
ripristini l'idea che gli accordi di Oslo sono ancora vivi. Arafat è
la sua
disperata carta, solo lui può dargli la vittoria, e i palestinesi
sentono
ormai il fiato di Sharon sul collo: ma la forza belligerante di Al
Fatah e
dei Tanzim è ormai lanciata a mille chilometri l'ora. I leader
palestinesi a
Taba fanno del loro meglio per dare a Barak qualcosa in mano, ma non
sarà
abbastanza per convincere Israele che la pace è davvero possibile.
E quindi di fatto Arafat pensa al futuro mandando il suo
finanziere-yuppie,
Mohammed Rashid, a fare affari a Vienna con Omri, il figlio di
Sharon, il
suo avvocato Dov Weisglass e Eytan Bentsur, ex direttore del
ministero degli
Esteri. Si dice, anche se Sharon insiste che hanno solo parlato di
alta
politica, che uno degli argomenti dei colloqui siano stati gli afrori
danarosi del casino di Jerico. E questo configura nella pratica una
delle
idee, non di per sé scandalose, di Sharon: una sorta di appeasement
nell'arricchimento. In ogni caso, i doppi e i tripli giuochi appaiono
in
controluce, sia quelli di Sharon sia quelli di Arafat: il capo
palestinese
sponsorizza uno sforzo di pace (e quindi di aiuto a Barak) nei
colloqui di
Taba, e poi incontra Sharon (o Omri, piume delle sue piume) per
concludere
patti e persino storie di soldi. Barak d'altra parte cerca a sua
volta di
giuocare su più tavoli: per soddisfare il popolo addolorato e
spaventato da
tanti attentati per la strada, sugli autobus, al ristorante, blocca i
colloqui, chiude i Territori, poi li riapre, poi li richiude...
Intanto,in
questa rovina, Shimon Peres da lontano scuote la saggia testa e lo
critica,
lo critica ancora, non smette di insidiarne il posto.
La verità è che Israele, una volta persa l'anima degli accordi di
Oslo,
deposto il culto della pace è totalmente sconcertato. La dice molto
lunga
uno degli ultimi letali attentati, quello in cui hanno perso la vita
due
proprietari di un sushi bar, che in Israele è una sorta di conquista
pacifista. Il loro ristorante era in via Shenkin, la via più di
sinistra a
Tel Aviv, tutta code di cavallo, rock e politically correct. I poveri
Motti
Dayan e Etgar Zeituny (così si chiamavano gli assassinati) erano
arrivati a
Tulkarem attraverso una loro furbissima strada che evitava i posti di
blocco
israeliani, perché è proibito girellare per le città palestinesi.
Andavano a
comprare delle anfore per fiori. Hanno pensato di poter mangiare in
un
ristorantino tipico: un ottimo humus. E' qui che li hanno prelevati e
giustiziati. Forse lo stupore, all'inizio,è stato più grande della
paura. Ma
la morte non conosce il trattato di Oslo.