INTERVISTA IL PRINCIPE DEGLI ARABISTI Bernard Lewis: nel mirino c'è Arafat
martedì 7 febbraio 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV BERNARD Lewis si trova in Israele in queste settimane per
conferenze e per numerose consultazioni sia qui che nei Paesi arabi.
Studioso eminente della storia e della cultura islamica, inglese di
nascita, Emeritus Professor all'Università di Princeton, non c'è
leader arabo o israeliano che non gli chieda un parere, uno scambio
di idee. Infatti Lewis ha scritto alcuni libri sul mondo islamico
tradotti e letti in tutto il mondo. Professor Lewis, gli atten tati
come quello odierno sono ormai pane quotidia no in Israele.
L'opinione pubblica è esasperata; l'integralismo islamico è in
ascesa. Lei seguita a crede re nelle strette di mano fra Rabin e
Arafat?
cauto e meno ottimista. Ma, di certo, il processo di pace è ancora
in corso. In che senso?
Oslo, sostanzial mente?
Rabin si sono stretti la mano, l'Olp non era certo diventata
sionista. Avevano però avuto luogo due cambiamenti di immensa
portata, che emanano tuttora la loro forza: la fine dell'Unione
Sovietica, con la conclusione della guerra fredda. E la necessità
degli Usa, unica potenza rimasta in gioco nell'area, di avere
rapporti amichevoli con tutti, stante, tuttavia, la loro originaria
simpatia per Israele. Il secondo motivo di fondo: la guerra del Golfo
ha distrutto per sempre il panarabismo ponendo uno Stato contro
l'altro, e dividendo dall'Olp, che sostenne Saddam Hussein, chi non
lo sostenne. Arafat decise per la pace, dunque, quando si rese
conto di avere sbagliato. Sì ; l'Arabia Saudita gli aveva tagliato i
fondi, il suo prestigio era diminuito in tutto il mondo arabo per
questo errore di calcolo che non era certo il primo. Intanto era
sorto l'astro del fondamentalismo islamico, la minaccia che spaventa
a morte tutti i leader attuali, che per questo soprattutto hanno
scelto la pace. Qualcuno dice tuttavia che Oslo ha messo i
palestinesi in una posizione di debo lezza. È vero il contrario:
Arafat era finito prima della pace. Meno male che il governo
israeliano era quello di Rabin e Peres, che ha visto nella debolezza
di Arafat un'opportunità di pace, e quindi una ragione per
recuperarlo piuttosto che per distruggerlo. Il mondo si sarebbe
voltato dall'altra parte. Ma Arafat potrebbe, come gli chiedono gli
israeliani, controllare il terrorismo islamico?
fortemente, e anche gli israeliani sanno che è lui il primo a
rischiare. Il terrorismo islamico è prima contro i musulmani stessi,
solo in seconda battuta contro Israele. Il problema che Arafat può
affrontare e risolvere oggi è decidersi a governare, ovvero a
delegare (mi risulta che controlli ogni minima mossa dell'Autonomia
palestinese) e ad accettare un'economia palestinese che prescinda
dalla sua persona. Gli Stati che dovrebbero versare oggi ingenti
capitali, si rifiutano di investire in Arafat stesso; ma lui non
capisce, o non vuol capire. Pensa che Assad di Siria dopo il
recente incontro del Cairo senta che è rima sto solo, escluso dal
pro cesso di pace?
duro, più può ottenere. Ma ignora, o forse non capisce, che la
democrazia è un gioco rapido e crudele. La leadership israeliana di
oggi è quella più disponibile a concessioni territoriali. Alle
elezioni del '96 tutto può cambiare. Nel mondo arabo lei nota
segnali di cambiamento culturale, che mostrino la crescita di un
?
gli intellettuali egiziani più anziani, quelli del tempo di Sadat, e
i palestinesi. Questi ultimi per esempio producono pubblicistica
anti- israeliana, ma non antisemita. Invece nelle librerie egiziane o
giordane si trova soltanto del materiale molto primitivo, i giornali
sono ancora pieni di caricature di ebrei, sugli scaffali delle
biblioteche ci sono copie dei "protocolli dei savi di Sion". Il
meglio che può capitare a chi cerca notizie sugli ebrei o su
Israele, è di non trovarne nessuna. L'Olocausto è citato solo per
negarlo o per approvarlo. Ripeto: i palestinesi tuttavia sono
migliori. Ma i giovani intellettuali, anche fra loro, sentono nel
mondo arabo l'attrazione e anche la moda islamica. Fiamma Nirenstein