INTERVISTA IL PRIMO MINISTRO DI ISRAELE. "Inaccettabile uno Stato pal estinese. Non m'interessa essere popolare" Netanyahu: per la pace una Camp Davi d in Italia
mercoledì 26 novembre 1997 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
IL primo ministro di Israele, Benyamin Netanyahu, sta tentando di
riaprire il processo di pace. In queste ore cruciali ha concesso
un'intervista esclusiva al direttore de La Stampa, Carlo Rossella,
a Fiamma Nirenstein ed al corrispondente diplomatico, Maurizio
Molinari.
Signor primo ministro, lei ha tante volte dichiarato che
sorprenderà tutti con il dono della pace in Medio Oriente. Ma
non si è visto nulla. Pensa forse di mantenere la promessa
offrendo di ritirarsi da circa l'8 per cento dei Territori
Occupati prima del negoziato definitivo?
"Mi piacerebbe ma certo bisogna essere sempre in due a ballare il
tango. Io ho fatto la mia mossa, che mi sta costando molte critiche
in un dibattito apertosi proprio oggi nel mio governo. Adesso tocca
ad Arafat provare il suo impegno nella lotta al terrorismo". Prima
di parlare di Arafat, ci faccia capire qual è il suo piano.
"L'idea centrale è di una trattativa su un pacchetto di proposte
che porti alla definizione dello status definitivo, perché
trattare punto per punto prende troppo tempo ed il tempo è
prezioso anche per evitare gli attentati terroristici; e poi,
paradossalmente, la trattativa complessiva è più ordinata perché
tutti capiscono meglio cosa danno e cosa prendono...". Quindi lei
come prevede l'assegnazione dei poteri ai palestinesi?
"Ci sarà un potere territoriale dei palestinesi per cui la
popolazione avrà il pieno controllo delle infrastrutture e
dell'economia. E poi un potere funzionale, che deve essere invece
condiviso, come per l'ambiente, l'acqua. Infine il potere legato
alle questioni di sicurezza, che non possiamo delegare". Come pensa
che Yasser Arafat possa mai accettare questa logica?
"È indispensabile per tutto il mondo, e lo vedete voi per primi in
Europa, uscire dalla vecchia logica dell'alternativa fra
sottomissione e autodeterminazione. La prima è moralmente
inaccettabile, la seconda è pragmaticamente inaccettabile. Solo la
terza via è possibile: accettare di autoamministrarsi, limitando i
propri poteri". Ma invece di partire dalla concessione del 6-8 per
cento dei Territori, che ha già scontentato tutti, non sarebbe
meglio riconoscere il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato?
"Deve essere chiaro che il 98 per cento dei palestinesi già vive
all'interno di un'Autonomia in cui i poteri civili appartengono al
loro governo. Il punto è che il concetto di sovranità nazionale
normalmente si associa a dei poteri che potrebbero mettere in
pericolo la nostra sicurezza. Quel che vogliamo evitare è che
l'Entità palestinese importi missili, carri armati ed altre armi
che possono essere usate contro di noi. Oppure che sigli patti
militari con Paesi a noi ostili come l'Iraq o l'Iran. Un altro
rischio è lo spazio aereo: non è possibile condividere un cielo
piccolo come il nostro. Le nostre forze aeree non potrebbero più
neanche levarsi in volo. Già l'accordo di Oslo prevede che il
porto e l'aeroporto palestinese a Gaza su cui stiamo trattando
debbano essere usati per scopi civili e certo non per
l'importazione di armi". Ma nella sua nuova proposta non ha tenuto
conto di quello che gli americani e tutto il mondo le chiedono:
interrompere la costruzione degli insediamenti per tutto il
periodo delle trattative.
"È una richiesta avulsa dalla realtà . E che nessuno aveva fatto a
Rabin, che aveva costruito più di me nei Territori. Sappiate che
solo l'1 per cento della Cisgiordania è abitato da coloni e che i
progetti di sviluppo degli insediamenti sono solo un decimo di
quell'1 per cento. Nello stesso periodo hanno costruito assai di
più i palestinesi contro l'accordo di Oslo". Ma lei ha compiuto
dei gesti simbolicamente esplosivi rispetto alla pace, come
l'apertura del tunnel nella Città Vecchia.
"Quel tunnel esisteva da sempre, non passa sotto le moschee, ed io
ho solo consentito, facendo abbattere una parte di muro, che i
visitatori potessero camminare in due direzioni, anziché solo in
una". Visto che la sua valutazione dei fatti resta così distante
da quella dei palestinesi non crede che ci vorrebbe una nuova
Camp David fra lei, Clinton ed Arafat?
"Penso che sia possibile. E perché no, forse potrebbe svolgersi
proprio in Italia quella fase delle passeggiate nei boschi che
serve per concludere degli accordi difficili. Non prendetela come
uno spunto politico, è solo una mia personale simpatia per il
vostro Paese". Lei condiziona ogni suo passo ad un drammatico
impegno di Arafat contro il terrorismo. Ma non le
sembra che questo
punto di vista sia soggettivo e quindi pretestuoso?
"Altro che pretestuoso] Arafat non ha mantenuto gli accordi di
Oslo. Non ha estradato i terroristi, non ha fermato le violenze,
non ha smantellato le infrastrutture terroristiche, non ha
sequestrato le armi, non ha emendato la Carta palestinese che
prevede la distruzione dello Stato di Israele". L'impressione
diffusa a livello internazionale è però che queste sue
preoccupazioni servono di fatto a rallentare il processo di pace.
"Il processo di pace è una mera espressione verbale se non si
riesce a fermare il terrorismo. Negli ultimi due anni e mezzo del
governo laburista, Hamas ha ucciso 250 civili. Come se in Italia
fossero morte per le strade 4000 persone. Arafat, fra la pace con
Israele e la pace con Hamas, ha scelto quella con Hamas. Io sono
stato eletto per siglare una pace sicura. Non dimenticatevi che
mentre Rabin fece passare l'accordo di Oslo alla Knesseth con solo
61 voti contro 59, noi abbiamo completato lo sgombero di Hebron, il
più difficile di tutti, con il 75% dei voti in Parlamento. Noi
solo possiamo fare la pace". Ha mai preso in considerazione la
possibilità di trattare direttamente con Hamas?
"Trattare su che cosa? Sulla distruzione di Israele, sulla mia
decapitazione? Del resto anche l'Italia non ha mai trattato con le
Brigate rosse, le ha smantellate". Al vertice di Sharm el-Sheik
del 1996 contro il terrorismo l'Occidente ed i Paesi arabi
moderati compresero che era indispensabile allearsi per batterlo.
Che fine ha fatto quel patto? Dai Paesi arabi moderati non si
sentono che critiche contro Israele...
"Lo smantellamento del terrorismo è stata la premessa per la pace.
Così è avvenuto per l'Egitto, dove non esistono più le basi dei
feddayn anti-israeliani, e lo stesso vale per la Giordania. Col
Libano ci potrà essere la pace soltanto se saranno smantellate le
basi degli Hezbollah. Discorso uguale per Arafat. O le leadership
arabe escono vincenti da questo scontro con il radicalismo islamico
o saranno distrutte più di noi da tutto quell'odio e quel
fanatismo". Dove sono oggi i più minacciosi nidi del terrorismo?
"In Cisgiordania e Gaza, con l'acquiescenza dell'Autorità
palestinese, e in Libano, con la protezione dei siriani". Perfino
alcuni generali israeliani chiedono il ritiro dal Libano. Non
pensa che il Paese dei Cedri sia diventato il Vietnam di Israele?
"Magari il Libano fosse distante da Israele quanto era il Vietnam
dagli Stati Uniti". Che effetto le ha fatto sentire il presidente
della Repub blica, Oscar Luigi Scalfaro, chiedere da Beirut il
ritiro di Israele dal Libano?
"Io sono il primo a desiderarlo. Magari ce ne potessimo andare. Ma
in Libano ci sono anche gli Hezbollah e le truppe siriane...".
Rabin aveva capito che senza ridare il Golan non si poteva
arrivare alla pace con la Siria. Lei è d'accordo?
"Il principio che non accetto è promettere qualcosa ancor prima di
cominciare a trattare". Ma allora non vi sarà alcuna pace con
Damasco.
"Io credo che raggiungendo dei reciproci e solidi accordi sulla
sicurezza sia possibile: così avvenne con l'Egitto. Ma in quel
caso c'erano in mezzo centinaia di chilometri del Sinai, qui c'è
solo una ripida collina che sovrasta tutto Israele". Ma la pace con
l'Egitto, basata sulla sicurezza piuttosto che sulla reciproca
comprensione, resta sempre una pace fredda.
"Sì , ma la pace con l'Egitto in vent'anni, pur con i suoi alti e
bassi, non si è mossa di un centimetro. Con il tempo tutti i Paesi
dell'area comprenderanno i reciproci benefici provenienti dalla
pace. E questo, oltre alla sicurezza, sarà l'altra grande
garanzia". Da dove viene oggi la più pe ricolosa minaccia
strategica per Israele?
"Dall'Iran. Perché l'Iraq ha minori mezzi e appetiti solo
regionali. Teheran invece ha ambizioni globali perché è uno Stato
ideologico, che si arma indisturbato con l'aiuto della Russia.
L'Iran si sta dotando di un consistente arsenale nucleare e
chimico, la sua bomba atomica sarà pronta in 15 anni. Non è un
problema israeliano ma italiano, europeo, americano".
Ci sono voci insistenti che Washington, stanca della politica
israeliana, stia preparando una proposta per l'area. Che effetto
le fa questa possibile rottura con il grande alleato?
"Non sarebbe certo la prima volta che ci sono delle divergenze con
gli americani dalla guerra dei Sei Giorni. Ma questo non ha mai
spezzato il nostro grande rapporto. Noi viviamo qui, loro al di là
dell'Oceano. Siamo flessibili ma abbiamo delle responsabilità
sulla nostra sicurezza a cui non possiamo venir meno". A dicembre
andrà a Washington?
"Non ho ancora piani in proposito. Un incontro con Clinton non è
un premio. Può avvenire solo per motivi di reciproco interesse".
Come valuta il fatto che l'Europa è ancora più critica
dell'America nei suoi confronti?
"Forse a causa del suo passato coloniale l'Europa non capisce bene
quello che avviene qui. Questa non è l'Indocina, né l'Etiopia.
Immaginare Israele come un potere coloniale che ha occupato un
Paese arabo è uno dei più grandi errori storiografici. A volte è
comico vedere come la stampa europea ci attribuisce una valanga di
violazioni di Oslo ma ignora quelle palestinesi. Ma a me non
interessa essere popolare, non voglio premi. Voglio solo una pace
vera per proteggere l'unico Stato ebraico". Lei ha un buon rapporto
con Prodi ma talvolta il nostro ministro degli Esteri, Lamberto
Dini, la critica apertamente...
"Non lo prendo come un fatto personale". L'Italia ha solide
relazioni con i Paesi arabi. Questo può servire al negoziato?
"È molto positivo che l'Italia abbia un buon rapporto con gli
arabi. Ma il processo di pace ha due partner: Israele e gli arabi.
Non si può fare la pace senza gli israeliani. L'automatismo
filopalestinese fa nascere dei dubbi sulle buone intenzioni di quel
mediatore onesto che anche l'Europa vuole essere". Il presidente di
Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, cerca da tempo di avere un
appuntamento con lei in Israele. Lo riceverà ?
"Non ci ho pensato. Vengo spesso in Italia, incontro i miei amici
che stanno nel governo Prodi, con cui ho un ottimo rapporto, ed
altri amici personali. Per il resto non mi metto a fissare
appuntamenti di là dal confine con altri personaggi politici". Dai
suoi buoni rapporti con Prodi cosa si aspetta?
"Conosco Romano Prodi da prima che diventasse premier. Durante una
sua visita rimase molto colpito dal grande sviluppo della high-
tech israeliana. Mi piacerebbe che i nostri due Paesi potessero
scambiarsi esperienze soprattutto in quel campo. L'economia in
Israele va bene, gli investimenti stranieri si sono moltiplicati
soprattutto nella tecnologia". Nonostante la crisi del processo di
pace?
"Sì ". Il Papa verrà in Israele prima del Duemila?
"Ho incontrato il Papa da poco e mi ha detto che gli piacerebbe
venire entro il Duemila. Sarebbe di enorme significato per la pace
in tutto il mondo se venisse qui a celebrare la nascità di Gesù ".
Ogni giorno si legge sui gior nali israeliani che il suo go verno
sta per cadere. Lei su scita delle autentiche onda te di antipatia
fra i suoi e nel mondo. Chi sarà il prossimo premier di Israele?
"Posso promettere che non intendo essere eletto per più di due
volte consecutive".
Carlo Rossella
Maurizio Molinari
Fiamma Nirenstein
