INTERVISTA Da Tripoli a Israele Parla Fellah, regista del grande pellegrinaggio
martedì 8 giugno 1993 La Stampa 1 commento
TEL AVIV RAFFAELLO Fellah. Fellah in arabo vuol dire contadino,
Raffaello è per tutti un arcangelo speciale, quello che salva:
Perché mia madre, in quel maggio tripolino del 1935 quando io
nacqui, era moribonda. Fu come se io, con la mia nascita, l’ avessi
salvata. Da allora, quando disserrò gli occhi veramente gialli
come non se ne vedono in giro sulla allora trentottesima provincia
dell’ Impero, la Tripolitania, Raffaello Fellah non ha perso il
vezzo del liberatore, del salvatore, del costruttore di pace. Così
è proprio lui che ha contribuito alquanto, dal suo seggio di
presidente dell’ Associazione degli ebrei libici sparsi per il
mondo, alla visita dei duecento pellegrini di Gheddafi, che fino
alla loro traumatica uscita di mercoledì scorso, hanno
inopinatamente calpestato il suolo israeliano. Israele, la Libia:
due Paesi in guerra. Gheddafi, Rabin: due personaggi più lontani
non si possono immaginare. Raffaello Fellah ha però sempre sognato
con irruenza araba, testardaggine ebraica e diplomazia italiana (è
stato ed è molto legato ad Andreotti) di curare la ferita della
cacciata degli ebrei libici nel 1967. Passo passo ha costruito la
sua visita personale al Rais libico sotto la sua tenda nel febbraio
scorso. E poi, ha in gran parte organizzato la visita dei libici
qui, in Israele. Per riassumere: nei giorni scorsi i pellegrini (di
cui molti lanciavano troppo lunghe occhiate sul terreno nemico)
hanno passato poco più di una giornata in preghiere, svillaneggiati
dai palestinesi che si sono sentiti traditi; e invece benvenuti
dalla comunità ebraica libica di qui, nostalgica come sanno essere
gli arabi dei costumi di casa (cus cus, cultura dell’ ospitalità ,
ispirazione comunque religiosa) e anche sensibili al pensiero che
forse da casa, da Tripoli, potrebbe venir qualcosa indietro di tutti
i patrimoni lasciati in mano a Gheddafi. Il miliardario libico
Nimrodi è stato il principale sponsor economico della gita e ha
promesso una prossima visita di Gheddafi. I governanti israeliani
hanno fatto finta di niente, ma si capisce che qualcosa hanno
sperato anche loro.
stagno parlando di una prossima visita di Gheddafi. Forse lo ha
fatto per placare le aspettative della nostra gente; e forse anche
per sedare i sospetti eccessivi degli israeliani. Il deputato Yossy
Beilin ha detto in pubblico, mentre ancora i libici passeggiavano
per le strade di Gerusalemme, che il loro è un Paese di “
appestati”. Questo non si fa si rammarica Raffaello Fellah
spiegando il comportamento successivo degli ospiti, che d’ un
tratto, dallo scranno di una conferenza stampa hanno chiamato gli
arabi alla liberazione di Gerusalemme dallo Stato sionista.
ha rotto le regole dell’ ospitalità , e allora di conseguenza così
hanno fatto anche loro. I libici inoltre, hanno attaccato insieme
Arabia Saudita e Israele; e per capirli occorre anche dire che
intanto i palestinesi li avevano attaccati, mentre per Gheddafi,
isolato dal blocco delle sanzioni americane, non esiste più nessun
’ altra connessione col mondo arabo che non sia la causa
palestinese. Tuttavia, nonostante tutto questo, un grande tabù è
stato rotto. Fellah si illumina:
persino l’ Egitto che, nonostante il suo trattato di pace, non
consente ai suoi cittadini di venire in Israele. A parte le
intemperanze verbali, questo viaggio rimane alla storia come un
viaggio di pace. Raffaello Fellah è un incrocio di paradossi
storici: ebreo libico con cittadinanza italiana, amico d’ Israele in
visita cordiale da Gheddafi solo pochi mesi fa. Suo padre è stato
ucciso in un pogrom arabo, i suoi beni sono ancora in mano dei
libici. Italianizzante come tutti gli ebrei libici, si è beccato
tuttavia sia le leggi razziali del ‘ 38, quando la Libia era ancora
la provincia italiana di Italo Balbo, sia le persecuzioni del nuovo
regime, da cui è fuggito solo nel 1967. Poi, sponsor Andreotti, ha
iniziato un cammino di riparazione e di avvicinamento fino a
ottenere la cittadinanza italiana; ha riconquistato terreno con il
suo passato libico fino a sedere convivialmente nella tenda di
Gheddafi a quattr’ occhi col Terribile Rais; e così lo racconta:
quelli che tutti quanti sono abituati a immaginare. Quieto, pacato,
sicuro di sé . Niente a che fare col leader minaccioso e un po’
pazzoide delle interviste televisive. E io le sue interviste non le
ho mai mancate. Neppure una, in ventitrè anni. Vivo ogni giorno con
la radio di Tripoli accesa, e quindi insieme a lui. La mia visita fu
preceduta da un incontro a Roma con Andreotti e con il ministro
degli Esteri di Gheddafi, Omar Muntasser. Per anni solo Andreotti mi
aveva dato retta, aiutando gli ebrei libici a ottenere la
cittadinanza italiana, e sostenendoci nella parte legislativa che
riguarda le riparazioni economiche. Materia per noi complicata, che
passa attraverso una storia in cui sia gli arabi che gli italiani
non hanno la coscienza pulita. Le leggi razziali ci imposero di non
possedere beni oltre un limite molto ristretto e la rivoluzione
libica del ‘ 70 nazionalizzando le nostre cose e confiscando quelle
degli italiani ci ha espropriato definitivamente. Adesso però
Gheddafi sembrerebbe convinto delle nostre ragioni... Dunque,
negli Anni Settanta Ottanta l’ Italia era il Paese numero uno nel
nuovo trend affaristico petrolifico con la Libia. La Fiat, le grandi
commissioni per le opere pubbliche... Nessuno ci dava retta.
Gheddafi era forte. Io tuttavia cercavo di lavorare sodo per aiutare
i profughi e per salvare il salvabile. Ho pagato dei prezzi: gli
ebrei mi vedevano come una spia araba, gli arabi come un emissario
del Mossad. Anni duri. Poi, dopo le sanzioni americane, l’ apertura
del tavolo delle trattative di pace in cui Gheddafi non gioca alcun
ruolo, il Rais libico si è trovato isolato. Io intanto avevo
costruito qualcosa, un grande congresso internazionale a New York
nel 1987 e poi ancora a Roma nel ‘ 90 in cui gli ebrei libici esuli
si sono contati, e sono tanti. E poi la storia degli ebrei di Libia
commissionata a Renzo De Felice. Insomma, ho cercato di restare
sotto i riflettori della nostra storia nazionale recente; Gheddafi
mi ha visto, e mi ha invitato. Dopo avermi mandato a prendere con
una macchina di Stato a Djerba (l’ embargo non consente di atterrare
in Libia) e dopo avermi fatto ospitare nel bell’ albergo Meari, mi
è venuto incontro sotto la sua tenda col barracano color sabbia, e
col turbante. Un Gheddafi tutto nuovo, composto nella sicurezza del
potere. Ha mandato via altri due personaggi che ci stavano vicini
dicendo: “Voglio parlare a lungo col mio conterraneo”. Si è
detto preoccupato del fondamentalismo islamico, ha ripetuto che non
crede nella preoccupazione occidentale per l’ antisemitismo, e anche
che non crede a soluzioni parziali per Israele. Insiste che Israele
non si rende conto di essere circondata da più di un miliardo di
musulmani. Fellah racconta poi che con Gheddafi ha parlato anche
dell’ indennizzo degli ebrei libici:
che se tornassimo saremmo ben accetti. Ma chi può immaginarsi che
qualcuno di noi, con quello che abbiamo passato, voglia tornare?
Alla fine comunque, abbiamo concordato che in luglio o agosto ci
sarà un rivoluzionario viaggio di riconciliazione a Tripoli degli
ebrei libici, e vi parteciperà anche una delegazione di ebrei
italiani, e persino americani e anche israeliani. Non ci crede?
Questa è la promessa, su questo si misura la bontà dell’ impegno
di Gheddafi. Di fronte alle reazioni incredule dell’
interlocutore, Raffaello Fellah ripete che crede fermamente alle
promesse del Rais. E anche a quella di una conferenza del Trialogo,
un’ organizzazione che unisce musulmani cristiani ed ebrei. Dovrebbe
tenersi quest’ anno a Tripoli. Questo il Rais ha promesso:
non sulle sciocchezze televisive, sulle intemperanze verbali, si
misura la buona volontà di Gheddafi. Fellah è tutto vestito alla
coloniale, in ampi e leggeri tessuti color caki. Non si può fare a
meno di pensare che suo padre Mushi, uno dei più ricchi personaggi
della Tripoli d’ inizio secolo, confezionava burmus, selle,
cappelli, per le truppe coloniali. Erano nove i fratelli Fellah che
crescevano nella Tripoli
che Fellah ancora ricorda. L’ illusione italiana degli ebrei libici
durò finché non furono espulsi dalle scuole ed espropriati; eppure
la dolcezza della lingua appresa nelle scuole italiane, la
gentilezza della nostra cultura è rimasta su di loro come una
nostalgia che si è potuta placare, dopo la cacciata da Tripoli,
perché si creasse una nuova nostalgia:
Israele, ma un po’ dappertutto, per quanto bravi, per quanto ricchi
per quanto colti, restiamo per gli altri sempre dei sefarditi
dalla pelle un po’ scura. Allora, se si capisce questo si può anche
capire come il desiderio di comunicazione con i nostri connazionali
con la Libia, anche con Gheddafi resti comunque molto forte.
Allora non mi chieda se ho paura di Gheddafi: io, ebreo libico, non
ne ho. Fiamma Nirenstein
martedì 4 settembre 2007 13:09:08
E' un articolo forte e dolce nello stesso tempo, come la perseveranza e la speranza, il non arrendersi mai, il coraggio, la certezza che se non lottiamo non potremo avere, che la nostra fede in tutto quello che noi crediamo è il motore più forte per andare avanti. Ho conosciuto anch'io, di passaggio e in particolari circostanze, moltissimi anni fa Raffaello Fellah in un paese balcanico. Ma lui è una delle poche persone che mi hanno lasciato una traccia particolare. I pellegrini del mondo si incontrano anche nel deserto.