Fiamma Nirenstein Blog

INDIETRO NON SI TORNA

giovedì 27 luglio 2000 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein BARAK aveva all'aeroporto Ben Gurion, ieri, il viso dei momenti duri. « Non ci siamo riusciti» , ha detto, ripetendo però che non si torna indietro dalla via della pace. Arafat, quando è sceso dal suo elicottero fra la folla festante, ha fatto con le mani il segno della vittoria: non gliela'aveva data vinta agli israeliani, anzi, aveva costretto Barak a offrire di più e ancora di più , offerte che non potranno essere ritirate e che forse, spera certo Arafat, potranno realizzarsi entro il 13 settembre, data della proclamazione dello Stato Palestinese. C'è un motivo di grande delusione, uno di soddisfazione e uno di grande preoccupazione, nel fallimento del summit di Camp David. La delusione è legata alle irripetibili potenzialità dell'incontro. Il presidente Clinton ha fatto uno sforzo ciclopico nei confronti della pace mediorientale: la sua partecipazione personale, più che al suo desiderio di entrare nei libri di storia nei tempi supplementari del suo mandato, sembra ispirata dalla reale percezione che nella pace mediorientale si giochi quella basilare fra mondo avanzato e Paese in via di sviluppo, fra mondo ebraico cristiano e mondo islamico. Anche gli altri due interlocutori erano i migliori: Ehud Barak è leader moderno, pronto a passi oltremodo coraggiosi, ma garantito dalla sua esperienza di soldato. Dopo di lui, è possibile invece un ritorno di Netanyahu. Quanto a Arafat, nonostante la sua antica predilezione per la diplomazia delle armi e del forcing internazionale, è certamente il leader che ha mostrato anche una disponibilità concreta alle trattative per onorare la promessa di una vita: lo Stato Palestinese. Nonostante i grandi protagonisti, non è andata, e questo è molto significativo della profondità dello scontro. Ma, e qui viene il motivo di soddisfazione, argomenti tabù come Gerusalemme e i profughi sono usciti dalle loro oscurità mistico-religiose o propagandistiche. Anziché solo invocata, è stata finalmente chiamata con i nomi dei suoi specifici quartieri, dalle pietre si è passati agli uomini. E da qui si ripartirà . Ma i motivi di preoccupazione sono molto grandi. Arafat è apparso al summit un leader con le mani legate: la sua opinione pubblica interna, abituata a sollevare striscioni e fucili e a dire sempre no, che ancora non pratica nessuna cultura di pace. Al contrario è affezionata all'orribile sogno dello shahid, il martire dell'Islam. Inoltre Arafat è stato condizionato dalle manovre del mondo arabo intero, in primis dell'Egitto e poi dell'Arabia Saudita, che proclamano la loro sovranità morale su Gerusalemme e non sono interessati a una pace che può sottrarre loro egemonia morale ed economica. Oltre a ciò , si è visto che il leader di un Paese non democratico può curarsi soprattutto della propria sopravvivenza vellicando i sentimenti delle masse, incurante di principi superiori; mentre Barak, che aveva da rendere conto agli elettori che lo hanno scelto per fare la pace, non poteva che andare più avanti possibile nelle concessioni. Nonostante le parole di speranza di Clinton, le possibilità di pace in Medioriente sono ora minate dalla fondamentale differenza che esiste fra un sistema democratico che persegue la pace come valore irrinunciabile e un mondo non democratico che si percepisce come oppresso e sfruttato, e dà quindi alla pace il valore dell'occasione per il recupero di una Terra che ritiene rubata. Una visione che non contempla sacrifici in nome di un principio astratto, valido in sé .

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