IN GUERRA CONTRO L'OCCIDENTE
martedì 22 agosto 1995 La Stampa 0 commenti
ANCORA sangue, ancora l'urlo delle sirene sul processo di pace,
ancora vittime colpevoli solo di essere parte della folla indifesa
che alle 8 di mattina prende l'autobus verso il lavoro. Di nuovo
Israele inghiotte le lacrime, organizza il lutto, mobilita gli
ospedali. Il mondo si affaccia sulle immagini raccapriccianti della
televisione e subito domanda ansiosamente al governo di Gerusalemme:
si spezzerà il filo delle trattative? No: Rabin non interromperà i
colloqui di pace a seguito della bomba sull'autobus n. 26 di
Gerusalemme. La strage, il sangue, non fermeranno la buona volontà .
Questo è evidente dalle sue dichiarazioni, dall'atteggiamento di
tutti gli uomini di governo, dalla linea contenuta che si è dato
anche il presidente della Repubblica Ezer Weizman che invece, dopo
l'attentato del 24 luglio, aveva chiesto una sospensione. Il mondo,
se vuole, può stare ragionevolmente tranquillo. Ma, sempre se vuole,
può mettere da parte questa prima legittima domanda sul futuro del
processo di pace e addentrarsi in una selva di questioni più congrue
e forse più inquietanti per tutti noi. Che i colloqui di pace stiano
andando bene, è in questi giorni voce comune in Israele: la
sicurezza, la spartizione delle acque, il ritiro delle truppe, le
elezioni, non c'è nessuna delle questioni in causa su cui una delle
due delegazioni abbia sollevato barriere invincibili. La storica
opera di partizione su cui per la prima volta israeliani e
palestinesi concordano, prende forma. Negli Anni 40 la volevano gli
ebrei disperatamente, e i palestinesi la rifiutarono; negli Anni 70 i
palestinesi la desideravano con tutto se stessi, e non gli ebrei.
Alla fine, l'appuntamento si è realizzato; e i due popoli si sono
incontrati esausti all'angolo di una strada in salita, ormai tutta
percorsa e dimostratasi orribilmente impraticabile. Dopo aver ceduto
Gaza, Israele si è apprestata a cedere territori strategicamente
assai più vitali, fin sulle alture prospicienti Tel Aviv, fin quasi
dentro Gerusalemme, riconoscendo, per così dire, il torto storico
dell'occupazione del '67. In cambio ha chiesto ad Arafat di
dimostrarsi capace di governare, dando fiducia agli investimenti
stranieri, abbattendo la corruzione, e soprattutto cercando di
garantire la sicurezza degli israeliani. Arafat ci ha provato entro i
limiti del suo potere e delle sue convinzioni: l'adesione dei
palestinesi alla sua linea è oggi tutt'altro che totale, e persino
all'interno delle sue stesse forze di polizia (che Rabin gli ha
consentito di ampliare oltre i limiti fissati) l'entusiasmo per la
caccia agli uomini di Hamas è molto poco. Inoltre le elezioni
prossime venture gli consigliano un atteggiamento accattivante verso
i credenti che simpatizzano con l'integralismo islamico.
L'acquiescenza gli comporta dei rischi nei confronti d'Israele; ma la
lotta frontale determinerebbe l'impopolarità fra i suoi. In
definitiva, Israele ha imparato di non potersi aspettare che Arafat
si faccia garante della tranquillità del popolo ebraico; sempre più
spesso anche gli uomini del governo israeliano, e persino il ministro
della Polizia, ripetono che, almeno per una parte, il terrorismo è
endemico, e che gli accordi di pace non lo potranno curare del tutto.
E lentamente Arafat va dicendo alla sua parte una verità simmetrica
e analoga, ovvero che non è l'indipendenza dello Stato palestinese
che renderà minore la miseria terzomondiale del suo popolo; e che
non è dall'ex nemico che bisogna aspettarsi la panacea dei propri
mali; bisogna invece saper combattere la guerra della modernità .
Dunque, dev'esser chiaro che al momento non è la pace ad essere in
pericolo, almeno fino alle elezioni dell'anno prossimo, ammesso che
l'oppositore Benjamin Netanjau, e se ne può dubitare, se la senta di
fermare la storia. Ma anche Netanjau ha capito che non sarà il
blocco dei colloqui a fermare gli attentati. Il mondo, dunque, fa
bene a preoccuparsi dello scoppio di ogni bomba, ma perché non si
finisca per percepirlo come il tuono di una qualunque tempesta
mediorientale, per quanto terribile, e gli scoppi riacquistino la
loro dimensione umana e politica, occorre metabolizzare l'idea che
ormai Israele ha deciso di restituire i territori; e che Arafat non
farà di più , e forse non può fare, di quello che ha fatto per
fermare il terrorismo. Eppure, sia pure con la pace, continuerà la
guerra. Un'altra guerra: non sarà più quella che contrapponeva i
due blocchi fino alla fine degli Anni 80; non sarà più quella
dell'Intifada; forse presto non sarà più neppure quella di Assad di
Siria per mantenere la sua supremazia della zona. Sarà invece una
guerra etnico-religiosa, finanziata dai Paesi più integralisti,
fomentata da chi non chiede affatto a Israele di restituire i
territori, ma chiede all'Occidente di sparire dall'orizzonte islamico
e di cedere alle sue forze. Su questo fronte c'è l'Iran, c'è il
Sudan, c'è parte dell'Egitto, c'è parte del Maghreb, c'è uno
schieramento con cui ha molto più che fare chi ha messo le bombe a
Parigi che chi chiede i territori a Rabin. Uno schieramento cui della
causa palestinese, per lo meno in questa fase storica, importa assai
poco. Sceverare queste due dimensioni e quindi smettere di chiedere
al governo laborista di Gerusalemme ogni volta se è bene
intenzionato, ma piuttosto aiutarlo e consigliarlo nella lotta
antiterrorista, questo può far sentire gli israeliani più partecipi
di uno schieramento, quello illuminista e occidentale, e quindi
spalleggiarlo nel processo di pace e anche aiutarlo a battere la sua
destra più fanatica e intransigente. Questo chiedono le bombe di
ieri di Gerusalemme. Fiamma Nirenstein
