In bilico fra Europa e Oriente: a Gerusalemme una mostra illustra il grande dilemma degli immigrati in Palestina Ben Gurion? Portava la kefiah Il fascino discreto dell'esotismo arabo
martedì 7 luglio 1998 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
MISTERIOSO Oriente, luogo di purezza desertica, di fiori e animali,
di ulivi e candide, minuscole case, di uomini vicini alla natura
quanto ormai l'uomo occidentale le è distante, luogo di desideri
profumati e di spiritualità . Oriente cattivo, che nasconde
agguati, che sogghigna alla vista della civiltà occidentale e
della democrazia, che prepara la vendetta della sua miseria e della
sua sottomissione. Questa antica ambivalenza è parte
dell'identità occidentale stessa e soprattutto della storia
dell'ultimo secolo. Ma mentre i Paesi europei, in special modo le
potenze coloniali, l'hanno vissuta in vitro, portando a casa
culture e mode mediate dall'amore, dall'odio, dalla paura o dal
fascino, gli ebrei invece, quando vennero in Palestina agli inizi
del secolo, si trovarono di fronte a un dilemma che riguardava sia
"l'altro" sia, soprattutto, se stessi. Aspirare
all'orientalizzazione o respingerla come aliena e antagonista?
In questi giorni il Museo d'Israele, esso stesso costruito a
Gerusalemme sul modello di un villaggio arabo, dedica tre piani di
esposizione a opere documentarie e artistiche su questo tema. Due
scritte ci introducono: "Per l'Europa noi costituiremo un baluardo
contro l'Asia, saremo guardiani della cultura contro la barbarie",
scriveva Theodor Herzl nel pamphlet di fondazione del sionismo Lo
stato ebraico (1896). Nel 1925 David Ben Gurion invece proclamava:
"Il significato del sionismo consiste nel tornare a essere un
popolo orientale". Questo doppio registro è parte dell'anima
nazionale, e Ben Gurion stesso nella mostra appare ritratto con la
kefiah al collo, un piglio da vero palestinese, da Lawrence
d'Arabia, durante la guerra del '48.
Tutta la prima grande sala è dedicata al cambiamento del
significato della kefiah agli occhi degli israeliani palestinesi:
è fantastico quanto il fazzoletto, che poi è diventato un'icona
della rivoluzione anche occidentale, abbia rappresentato dagli
inizi del secolo scorso il bon ton della borghesia intellettuale
ashkenazita russo-polacca che si sognava palestinese. L'Oriente
doveva riscattare il ghetto, farne scordare l'odore col suo profumo
di rosa e di fico d'India. La mostra comprende foto dei ragazzi
delle associazioni sioniste, tutti travestiti da arabi. Vedi una
coppia dal nome inconfondibile "David e Sara Aharonovitz" o due
donne "Rosa e Berta Rabinovitz" abbigliate come figure della
Bibbia. Questo erano gli arabi nella mente ebraica, purissime
figure di patriarchi, Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe.
La cronista scavando nella memoria dei suoi conoscenti ne ha
trovati alcuni che ricordano il loro nonno proveniente da Riga o da
Lublino sempre e soltanto in abiti beduini, o palestinesi. È una
tendenza che continua molto a lungo negli anni, è una specie di
celebrazione laica della Bibbia, un festeggiamento di carnevale (o
se si vuole di purim, la festa ebraica che gli corrisponde) di una
vagheggiante identità naturale, desertica, fisica, istintuale,
ritrovata dopo le persecuzioni e la reclusione. È molto rivelatore
vedere ancora nel '56 - dopo che con gli arabi già l'atmosfera si
era scaldata, e dopo che nel '29 il pogrom arabo di Hebron aveva
già dato il ritmo ai rapporti locali - il capo di Stato Maggiore
generale Motta Gur abbigliato con la kefiah. Ci vuole molto tempo
prima che la kefiah diventi, nella società israeliana, un simbolo
politico avverso, un segnale di criminalizzazione.
La mostra riporta i tragici poster di destra, in cui Rabin veniva
vestito dai suoi avversari con la kefiah in segno di massimo
disprezzo. Adesso, con Netanyahu, si usa la stessa iconografia. Ma
nonostante questi orrori, tutta l'intelligencija espressiva,
artistica, immaginifica è rimasta tenacemente attaccata
all'immagine dell'altro come immagine positiva. Colpisce che dal
quadro che rappresenta ironicamente Abba Eban, uno dei padri della
patria, con un vaso di fichi d'India, alle sculture di Ygal
Tumarkin che piangono scomparsi paesaggi arabi, l'orientalismo
intellettuale israeliano si trasforma negli anni in messaggio
politico di adesione palestinese.
Questo passaggio non è affatto scontato secondo la discussione
sull'orientalismo che, in parallelo con la mostra, si è aperta in
Israele. All'Università di Tel Aviv è stato presentato un libro
del professor John MacKenzie intitolato appunto Orientalismo, un
punto di vista revisionista: MacKenzie, della Lancaster
University, polemizza soprattutto con il filone rappresentato dal
filosofo palestinese Edward Said che ha ripetutamente stigmatizzato
l'orientalismo come una tendenza criptocolonialista, che fa della
cultura dell'altro qualcosa di cui appropriarsi per dominarla,
schiacciarla, utilizzarla secondo i propri fini. MacKenzie sostiene
invece che l'approccio all'Oriente è stato ben più rispettoso. La
sua ispirazione è quella della rigenerazione dell'arte
occidentale, un romantico primitivismo antindustriale, una ricerca
di spiritualità sincera e profonda. MacKenzie prende come esempio
la critica spietata di Said all'Aida di Verdi, e fa vedere come in
realtà il compositore fosse consapevole della complessità
culturale dell'Oriente, non tendesse affatto all'immiserimento di
un conflitto interno africano, ma al contrario costruisse una
grandiosa parabola in cui "la perdente" Aida ce la fa contro "i
vincenti" egiziani. Nell'aria "Oh patria mia" c'è una critica
dell'impero e la tensione verso un mondo carico di valori positivi
in contrasto con quello coloniale. E i neri, al contrario di quello
che dice Said, sono rappresentati nient'affatto in maniera
negativa, ma come figure fiere, riflessive, dotate di un'antica
saggezza.
La tesi di MacKenzie risulta molto convincente alla vista della
mostra; specie nella sua seconda parte, l'amore per il vicino
arabo, la sua idealizzazione, il dolore per la sua sofferenza sono
senza dubbio la nuova, incontrastata forma di orientalismo
israeliano. Dai vestiti dei grandi sarti ispirati alla kefiah e ai
cappotti beduini da deserto, al ritratto fotografico di Micha
Kirshner che mostra una madre palestinese come una Madonna dolente
con il bambino in braccio, alla Cro cifissione beduina di Tumarkin,
alle dure opere contemporanee di artisti come Israel Rabinovitz o
Michal Heiman, ma anche alle tele piene di lirismo e di esotismo di
Ludwig Blum, Aharon Shaul Shur, Abel Pann, Reuven Rubin, degli Anni
20-40, tutte le espressioni sono così appassionate, così
identificate, da portare lo spettatore a chiedersi addirittura se,
contrariamente a quel che sostiene Said, l'esotismo non sia la
culla ideologica del terzomondismo politico.
La mostra è aperta fino al 31 ottobre e il suo bravo curatore,
mezzo ashkenazita e mezzo sefardita, è il professor Ygal Salmona.
Fiamma Nirenstein