Immigrazione, l'Europa ritrova l'orgoglio
Il Giornale, 18 ottobre 2010
La cancelliera tedesca Angela Merkel ammette il fallimento del multiculturalismo e dà una scossa a un continente che per troppo tempo si è illuso di poter "convertire" alla democrazia popolazioni che non ne vogliono sentir parlare.
Il discorso della Cancelliera tedesca Angela Merkel sul modello multiculturale fallito, non è una resa, ma una sfida. Una bella sfida nella forma non di uno squillo di tromba, ma di un pacato richiamo al buon senso. Di certo la Cancelliera, per come la si conosce, liberale e moderata, non intende con la sua uscita tentare di chiudere le porte della Germania o dell'Europa; né sarebbe possibile bloccare d'un tratto l'immigrazione e più in generale quei processi di globalizzazione che sono parte del mondo attuale, del nostro mondo. Ma proprio la sua faccia tondeggiante eppure dura, i suoi modi di usuale cortesia che ci propongono la questione in maniera urbana, il suo mettere avanti la preoccupazione dei giovani da qualificare per un degno lavoro, i nostri ragazzi che non sanno che fare di se stessi; il parlare del disagio biblico della babele di un mondo in cui i tuoi vicini di casa non hanno idea della tua lingua; il disegnare ghetti alieni e totalmente diversi l'uno dall'altro, nazionalità per nazionalità, dove quasi non ci si pone affatto il problema di integrarsi, ma solo quello della sopravvivenza e della chiusa conservazione di se stessi, identificata con quella della propria cultura... tutto questo riesce a focalizzare il problema meglio di tante analisi sociologiche.
E ci dice che certe culture molto spesso non hanno nessuna intenzione di mescolarsi con la nostra, qualsiasi sia il nostro atteggiamento, con la migliore buona volontà. Parigi è ormai una città dove più di 200mila persone vivono in famiglie dove si pratica la poligamia, in Italia trentamila donne sono state sottoposte a mutilazione sessuale, i tribunali islamici, una novantina solo a Londra, comminano pene impensabili.
Proprio lei, l'Angela, ha qualche speranza d i proporre il problema proprio perché non usa i toni di Geert Wilders, che pure ha buone ragioni ma che viene respinto dall'opinione pubblica politically correct. La cancelliera può porre il problema come forse l'avrebbe posto Alexis de Tocqueville: nel 1830, come si sa, egli propose al nostro mondo una descrizione acuta e stupita di chi vede per la prima volta in America ruotare all'impazzata un universo molto veloce fatto del mosaico policromo in cui schizzano tutte intorno le tessere che stanno creando una società liberale e democratica. L'avidità, la capacità, la volontà: ma anche lo spirito comune. Torme di uomini che venivano da tanto lontano alla costa della Nuova Inghilterra, dice Tocqueville, presto forgiarono un linguaggio uniforme sulla base della comune lingua inglese, tutti volevano far valere l'educazione, il fatto di appartenere alle classi agiate della loro madrepatria, tutti pur nel bisogno, sulla terra vasta e selvaggia, affrontavano la novità con la convinzione di farlo anche in nome di un'idea, basilarmente quella dei pellegrini puritani.
«La passione inquieta e ardente», «l'avidità verso l'immensa preda» non dimenticò di far fiorire le associazioni civili, i giornali, le poste. Tutto questo insieme di circostanze puntava in una direzione sola: l'invenzione della democrazia. È qui, e non tanto nel fattore linguistico oggi più facilmente affrontabile con i computer e i mezzi di comunicazione di massa, che ha completamente fallito il nostro modo di guardare all'immigrazione. Ci siamo innamorati dei colori e dei costumi, abbiamo pensato che l'intrinseca bellezza di vedere un bambino scuro e uno chiaro insieme magari sorridenti di fronte all'illusoria macchina fotografica degli United Colors of Benetton rispecchiasse un'aspirazione comune, quella della vita in comune non ovunque, ma da noi: nella democrazia. È questo ultimo termine che è spesso distante e percepito come ostile dalle culture che ospitiamo.
Noi siamo forti: la cultura democratica nostrana ha divorato, per esempio, la nostra cultura contadina degli anni ’60, con quel «genocidio culturale» di cui parlava Pasolini. Ma si trattava della stessa cultura bianca, la stessa mamma, lo stesso cibo, gli stessi costumi sessuali, con piccole trasformazioni apparenti. Invece, nella globalizzazione che avviene nella odierna società democratica ci sono dei corpi i cui odori, sapori, colori sono totalmente diversi, distanti, e soprattutto non piacciamo loro affatto: della democrazia non ne vogliono proprio sentir parlare, non l'hanno mai vista a casa loro, non si capisce perché dovrebbero conformarsi alle sue regole di cui la maggiore è quella della libertà individuale. Proprio il contrario di quello che indica per esempio l'Islam come bene supremo.
Altre sono le loro regole, non quelle della democrazia. In Germania, terra della Merkel, un'avvocatessa di Berlino che è stata pestata con la sua cliente musulmana che voleva divorziare, ha subito un'aggressione anche nel metrò e ha dovuto chiudere lo studio. Sempre in Germania, l'Idomeneo di Mozart è stato cancellato per minacce islamiste; il direttore del quotidiano Die Welt Roger Köppel ha fermato per pura fortuna la mano di un giovane musulmano che stava per pugnalarlo nel suo ufficio. In Germania, in Inghilterra, in Francia non si riescono più a rintracciare le «ragazze scomparse», divenute schiave in seguito a matrimoni combinati. A Stoccolma è di gran moda, ha scritto Giulio Meotti, una t-shirt che i ragazzi musulmani indossano: porta la scritta «2030 poi prendiamo il controllo». Sono solo episodi.
È la democrazia, stupido. Quando siamo di fronte a una cultura come quella islamica, ci sono delle forme di irriducibilità che investono questioni legali e morali che hanno sfumature diverse. Per noi «immigrazione » è una parola sacra, infarcita di sensi di colpa, di generosità, di religione e di memoria liberal o di sinistra. Ma anche democrazia è una parola sacra, prima ancora di vivibilità, che pure la gente che vive nei quartieri adiacenti quelli di immigrazione legittimamente pone. Il nodo è tutto là. Forse la Merkel, da democratica tedesca, europeista, borghese, complessata e timida come sa esserlo ogni tedesco colto, ce l'ha fatta a sollevare la questione.
Immigration: Europe regains its pride
Il Giornale, October 18, 2010
by Fiamma Nirenstein
The speech by German Chancellor Angela Merkel on the failure of the multi-cultural model, is not a defeat. It is a challenge. A momentous challenge, not in the form of a trumpet fanfare, but a quiet call to common sense. As the Chancellor is known to be a liberal and moderate, she certainly did not intend through her intervention to attempt to close the doors of Germany or Europe. Nor would it be possible to suddenly halt immigration and, more generally, the processes of globalization that are part of today's world, our world. But it was precisely her round, yet stern face and her common courtesy that pose the question to us in such a civilized way: her expressing the worry of young people to be trained for a decent job; our children who don't know what to do with themselves; speaking of the unease of a biblical Babel in a world in which your neighbors have no concept of your language; the creation of ghettos, all alien and totally diverse from each other, each nationality unto itself, where the question of integration does not even arise, only the survival and closed preservation of one’s self identified by one’s own culture… all this brings the problem into focus better than sheaves of sociological analyses.
The point is that certain cultures very often have no intention of mixing in with ours, despite our actions and best intentions. Paris has become a city in which more than 200,000 people live in families where polygamy is common practice. In Italy 30,000 women have been subjected to genital mutilation and Islamic courts—ninety-odd in London alone—inflict sentences that are inconceivable.
And it is, in fact, Angela, who has some hope of posing the problem because she doesn’t use the same tone as Geert Wilders who, despite his equally-good reasons, is rejected by politically-correct public opinion. The Chancellor could pose the problem as Alexis de Tocqueville would have. In 1830, as is well-known, he offered our world a sharp and amazed description of someone seeing for the first time in America a rapidly and crazily spinning world made up of a multi-colored mosaic around which gyrated all the individual tiles used to create a liberal and democratic society. Greed, competence and motivation, but also a common spirit. Herds of people who came from far away to the shores of New England, Tocqueville says, who would soon forge a unified language around a common English tongue, all interested in promoting education, the fact of belonging to well-off classes in their homelands despite their economic straits: in that vast wilderness they faced everything that was new with the conviction of making it work in the name of an ideal based on that of the Pilgrim Fathers.
“Their restless, burning passion” and “greed for the immense prey” did not fail nevertheless to create flourishing civil associations, newspapers and a postal system. All these circumstances taken together pointed in just one direction: the forging of democracy. It is here, and not so much because of the language factor that is easier to take on today with computers and the mass media, that our way of looking at immigration has failed completely. We have fallen in love with the colors and costumes. We have thought that the intrinsic beauty of seeing a black child and a white child, both perhaps smiling in front of the illusory United Colors of Benetton camera, somehow reflected a common aspiration, that of living together—not somewhere in general, but here, in our own backyard—in a democracy. It is this latter term that is often missing and perceived with hostility by the cultures we host.
We are strong. For example, our democratic culture devoured the rural culture of the 1960s through the “cultural genocide” spoken of by Pier Paolo Pasolini. But it was the same white culture, the same "mamma", the same food and the same sexual habits, with slight obvious changes. But in the globalization of today's democratic society, there are bodies whose smells, tastes and colors are completely different and distant and, above all, they don't like us one bit. They are absolutely not interested in democracy, they never had it at home and they don't understand why they should conform to its rules of which the primary one is personal freedom. Exactly the opposite of what Islam teaches as the supreme good.
They have other rules, not the ones of democracy. In Germany, Chancellor Merkel’s homeland, a Berlin lawyer was beaten along with her Muslim client who wanted a divorce; she was also attacked in the subway and was forced to close her practice. Again in Germany, Mozart’s opera, Idomeneo, was cancelled following Islamic threats. By pure luck, the editor-in-chief of Die Welt, Roger Köppel, blocked the hand of a young Muslim who was about to stab him in his office. In Germany, England and France, it is no longer possible to trace the “missing girls” who become slaves following arranged marriages. Giulio Meotti writes that, in Stockholm, the latest fashion is a T-shirt worn by young Muslim on which is written: "In 2030 we will take over". Just some incidents.
It’s the democracy, stupid. When we are faced by a culture like that of Islam, there are forms of irreducibility that run up against legal and moral issues with a whole range of subtleties. For us, “immigration” is a sacred term, filled of a sense of guilt, of generosity, of religion and liberal or left-wing overtones. But democracy is also a sacred term, our most important conquest: the masses of immigrants that do not share our democratic values put it in danger. And while we think that allowing immigration is a duty of democracy, we don’t understand that we are putting it at stake. Perhaps Chancellor Merkel—democratic German, pro-Europe, middle-class, complex-ridden and shy as every cultured German is—has succeeded in posing the question.
Dear Fiamma, congratulations to your re-election. That is good news for Italy and Europe. About Chancellor Merkel: Your statement is way too positive. A few days ago she called Islam "a part of Germany". Every year, she cuddles with the dictators from the Arab peninsula. And don't forget that the German parliament unanimously condemned Israel four months ago. That could not have happened without Merkel's silent approval. Best, Stefan
Ilaria Arri , Rivoli (To), Italy
Cara Fiamma, ha ragione a dire di stare attenti a chi proclama democrazia e libertà a tutti.Bisognerebbe proprio pensare che sì siamo tutti uguali, ma anche stare attenti a che le culture, qualsiasi cultura si adatti alla nostra idea di democrazia, che é una democrazia liberale, che pensi al rispetto della vita umana, a livello economico, sociale, umano.Un bacio e un abbraccio, Ilaria.
david bedarida , livorno italia
ecco un articolo che superando le solite ovvietà ed ipocrisie del politicamente corretto mette in evidenza i rischi enormi di un periodo ,come l'attuale,di crisi(intendendo come crisi la formazione di un nuovo assetto modiale socioculturale,con tutte le sue incognitee reazioni anche di tipo razzista o al contrario troppo buoniste e facilone).